Don Milani
Lettera ai giudici
Barbiana 18 ottobre 1965
Signori Giudici,
vi metto qui per scritto quello che avrei detto volentieri in aula. Non sarà
infatti facile ch’io possa venire a Roma perché sono da tempo malato. […]
La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c'era solo una scuola
elementare. Cinque classi in un'aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta
semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati. Decisi allora che
avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo
religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero
consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo
orario. Dodici ore al giorno, 365 giorni l'anno. Prima che arrivassi io i
ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e
cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell'orario
glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico. La questione appartiene a
questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di
argomentare se non sapeste che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo
le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo
insieme. […]
Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella duplice veste di maestro e di
sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Dovevo ben insegnare
come il cittadino reagisce all'ingiustizia. Come ha libertà di parola e di
stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che
erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della
nostra scuola c'è scritto grande “I care”. È il motto intraducibile dei giovani
americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del
motto fascista “Me ne frego”. Quando quel comunicato era arrivato a noi era già
vecchio di una settimana. Si seppe che né le autorità civili, né quelle
religiose avevano reagito. Allora abbiamo reagito noi. Una scuola austera come
la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione
per pensare e studiare. Ha perciò il diritto e il dovere di dire le cose che
altri non dice. È l'unica ricreazione che concedo ai miei ragazzi. Abbiamo
dunque preso i nostri libri di storia (umili testi di scuola media, non
monografie da specialisti) e siamo riandati cento anni di storia italiana in
cerca d'una “guerra giusta”. D'una guerra cioè che fosse in regola con
l'articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l'abbiamo trovata.
Da quel giorno a oggi abbiamo avuto molti dispiaceri: Ci sono arrivate decine di
lettere anonime di ingiurie e di minacce firmate solo con la svastica o col
fascio. Siamo stati feriti da alcuni giornalisti con “interviste” piene di
falsità. Da altri con incredibili illazioni tratte da quelle “interviste” senza
curarsi di controllarne la serietà. Siamo stati poco compresi dal nostro stesso
Arcivescovo (Lettera al Clero 14-4-1965). La nostra lettera è stata incriminata.
Ci è stato però di conforto tenere sempre dinanzi agli occhi quei 31 ragazzi
italiani che sono attualmente in carcere per un ideale. Così diversi dai milioni
di giovani che affollano gli stadi, i bar, le piste da ballo, che vivono per
comprarsi la macchina, che seguono le mode, che leggono giornali sportivi, che
si disinteressano di politica e di religione. Un mio figliolo ha per professore
di religione all'Istituto Tecnico il capo di quei militari cappellani che han
scritto il comunicato. Mi dice di lui che in classe parla spesso di sport. Che
racconta di essere appassionato di caccia e di judo. Che ha l'automobile. Non
toccava a lui chiamare “vili e estranei al comandamento cristiano dell'amore”
quei 31 giovani. I miei figlioli voglio che somiglino più a loro che a lui. E
ciò nonostante non voglio che vengano su anarchici. A questo punto mi occorre
spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola. E siamo giunti, io penso,
alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di
reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola
buona. La scuola è diversa dall'aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo
ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e
deve averli presenti entrambi. È l'arte delicata di condurre i ragazzi su un
filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo
somiglia alla vostra funzione), dall'altro la volontà di leggi migliori cioè il
senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione). La tragedia
del vostro mestiere di giudici è che sapete di dover giudicare con leggi che
ancora non son tutte giuste.
Son vivi in Italia dei magistrati che in passato han dovuto perfino sentenziare
condanne a morte. Se tutti oggi inorridiamo a questo pensiero dobbiamo
ringraziare quei maestri che ci aiutarono a progredire, insegnandoci a criticare
la legge che allora vigeva. Ecco perché, in un certo senso, la scuola è fuori
del vostro ordinamento giuridico. Il ragazzo non è ancora penalmente imputabile
e non esercita ancora diritti sovrani, deve solo prepararsi a esercitarli domani
ed è perciò da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo
di lui, dall'altro nostro superiore perché decreterà domani leggi migliori delle
nostre. E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i
“segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi
vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso. Anche il maestro è
dunque in qualche modo fuori del vostro ordinamento e pure al suo servizio. Se
lo condannate attenterete al progresso legislativo.
In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei
ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla. Posso solo dir loro che
essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando
sono giuste (cioè quando sono la forza del debole).
Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso
del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. La leva ufficiale per
cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello
sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola
e con l'esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l'ora non c'è
scuola più grande che pagare di persona un'obiezione di coscienza. Cioè violare
la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa
prevede. È scuola per esempio la nostra lettera sul banco dell'imputato e è
scuola la testimonianza di quei 31 giovani che sono a Gaeta. Chi paga di persona
testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri.
Non capisco come qualcuno possa confonderlo con l'anarchico. Preghiamo Dio che
ci mandi molti giovani capaci di tanto. Questa tecnica di amore costruttivo per
la legge l'ho imparata insieme ai ragazzi mentre leggevamo il Critone,
l'Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattro Vangeli, l'autobiografia
di Gandhi, le lettere del pilota di Hiroshima. Vite di uomini che son venuti
tragicamente in contrasto con l'ordinamento vigente al loro tempo non per
scardinarlo, ma per renderlo migliore. L'ho applicata, nel mio piccolo, anche a
tutta la mia vita di cristiano nei confronti delle leggi e delle autorità della
Chiesa. Severamente ortodosso e disciplinato e nello stesso tempo
appassionatamente attento al presente e al futuro. Nessuno può accusarmi di
eresia o di indisciplina. Nessuno d'aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono
parroco di 42 anime! Del resto ho già tirato su degli ammirevoli figlioli.
Ottimi cittadini e ottimi cristiani. Nessuno di loro è venuto su anarchico.
Nessuno è venuto su conformista. Informatevi su di loro. Essi testimoniano a mio
favore.
Ma è poi reato?
Vi ho dunque dichiarato fin qui che se anche la lettera incriminata costituisse
reato era mio dovere morale di maestro scriverla egualmente. Vi ho fatto notare
che togliendomi questa libertà attentereste alla scuola cioè al progresso
legislativo. L'Assemblea Costituente ci ha invitati a dar posto nella scuola
alla Carta Costituzionale “al fine di rendere consapevole la nuova generazione
delle raggiunte conquiste morali e sociali”. (ordine del giorno approvato
all'unanimità nella seduta dell'11 Dicembre 1947). Una di queste conquiste
morali e sociali è l'articolo 11: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di
offesa alla libertà degli altri popoli”. Voi giuristi dite che le leggi si
riferiscono solo al futuro, ma noi gente della strada diciamo che la parola
ripudia è molto più ricca di significato, abbraccia il passato e il futuro. È un
invito a buttar tutto all'aria: all'aria buona. La storia come la insegnavano a
noi e il concetto di obbedienza militare assoluta come la insegnano ancora. È
dalla premessa di come si giudicano quelle guerre che segue se si dovrà o no
obbedire nelle guerre future. Quando andavamo a scuola noi i nostri maestri, Dio
li perdoni, ci avevano così bassamente ingannati. Alcuni poverini ci credevano
davvero: ci ingannavano perché erano a loro volta ingannati. Altri sapevano di
ingannarci, ma avevano paura. I più erano forse solo dei superficiali. A sentir
loro tutte le guerre erano “per la Patria”.
Esaminiamo ora quattro tipi di guerra che “per la Patria” non erano. I nostri
maestri si dimenticavano di farci notare una cosa lapalissiana e cioè che gli
eserciti marciano agli ordini della classe dominante. In Italia fino al 1880
aveva diritto di voto solo il 2% della popolazione. Fino al 1909 il 7%. Nel 1913
ebbe diritto di voto il 23%, ma solo la metà lo seppe o lo volle usare. Dal '22
al '45 il certificato elettorale non arrivò più a nessuno, ma arrivarono a tutti
le cartoline di chiamata per tre guerre spaventose. Oggi di diritto il suffragio
è universale, ma la Costituzione (articolo 3) ci avvertiva nel '47 con
sconcertante sincerità che i lavoratori erano di fatto esclusi dalle leve del
potere. Siccome non è stata chiesta la revisione di quell'articolo è lecito
pensare (e io lo penso) che esso descriva una situazione non ancora superata.
Allora è ufficialmente riconosciuto che i contadini e gli operai, cioè la gran
massa del popolo italiano, non è mai stata al potere. Allora l'esercito ha
marciato solo agli ordini di una classe ristretta. Del resto ne porta ancora il
marchio: il servizio di leva è compensato con 93.000 al mese per i figli dei
ricchi e con 4.500 lire al mese per i figli dei poveri, essi non mangiano lo
stesso rancio alla stessa mensa, i figli dei ricchi sono serviti da un
attendente figlio dei poveri. Allora l'esercito non ha mai o quasi mai
rappresentato la Patria nella sua totalità e nella sua eguaglianza. Del resto in
quante guerre della storia gli eserciti han rappresentato la Patria? Forse
quello che difese la Francia durante la Rivoluzione. Ma non certo quello di
Napoleone in Russia. Forse l'esercito inglese dopo Dunkerque. Ma non certo
l'esercito inglese a Suez. Forse l'esercito russo a Stalingrado. Ma non certo
l'esercito russo in Polonia. Forse l'esercito italiano al Piave. Ma non certo
l'esercito italiano il 24 Maggio. Ho a scuola esclusivamente figlioli di
contadini e di operai. La luce elettrica a Barbiana è stata portata quindici
giorni fa, ma le cartoline di precetto hanno cominciato a portarle a domicilio
fin dal 1861. […]
Che idea si potranno fare i giovani di ciò che è crimine?
Oggi poi le convenzioni internazionali son state accolte nella Costituzione
(art. 10). Ai miei montanari insegno a avere più in onore la Costituzione e i
patti che la loro Patria ha firmato che gli ordini opposti d'un generale. Io non
li credo dei minorati incapaci di distinguere se sia lecito o no bruciar vivo un
bambino. Ma dei cittadini sovrani e coscienti. Ricchi del buon senso dei poveri.
Immuni da certe perversioni intellettuali di cui soffrono talvolta i figli della
borghesia. Quelli per esempio che leggevano D'Annunzio e ci han regalato il
fascismo e le sue guerre. A Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati
uomini che avevano obbedito. L'umanità intera consente che essi non dovevano
obbedire, perché c'è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta
nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell'umanità la
chiama legge di Dio, l'altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che
non credono né nell'una né nell'altra non sono che un'infima minoranza malata.
Sono i cultori dell'obbedienza cieca. Condannare la nostra lettera equivale a
dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che
devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà
comandati. E invece bisogna dir loro che Claude Eatherly, il pilota di
Hiroshima, che vede ogni notte donne e bambini che bruciano e si fondono come
candele, rifiuta di prender tranquillanti, non vuol dormire, non vuol
dimenticare quello che ha fatto quand'era “un bravo ragazzo, un soldato
disciplinato” (secondo la definizione dei suoi superiori) “un povero imbecille
irresponsabile” (secondo la definizione che dà lui di sé ora). (carteggio di
Claude Eatherly e Gunter Anders - Einaudi 1962).
Ho poi studiato a teologia morale un vecchio principio di diritto romano che
anche voi accettate. Il principio della responsabilità in solido. Il popolo lo
conosce sotto forma di proverbio: “Tant'è ladro chi ruba che chi para il sacco”.
Quando si tratta di due persone che compiono un delitto insieme, per esempio il
mandante e il sicario, voi gli date un ergastolo per uno e tutti capiscono che
la responsabilità non si divide per due. Un delitto come quello di Hiroshima ha
richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti: politici, scienziati,
tecnici, operai, aviatori. Ognuno di essi ha tacitato la propria coscienza
fingendo a se stesso che quella cifra andasse a denominatore. Un rimorso ridotto
a millesimi non toglie il sonno all'uomo d'oggi. E così siamo giunti a quest'assurdo
che l'uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva.
L'aviere dell'era atomica riempie il serbatoio dell'apparecchio che poco dopo
disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente. A dar retta ai teorici
dell'obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di
ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque
quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore. C'è un modo solo per
uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani
che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma
la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né
davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico
responsabile di tutto. A questo patto l'umanità potrà dire di aver avuto in
questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso
tecnico. […]
Che io sappia nessun teologo ammette che un soldato possa mirare direttamente
(si può ormai dire esclusivamente) ai civili. Dunque in casi del genere il
cristiano deve obiettare anche a costo della vita. Io aggiungerei che mi pare
coerente dire che a una guerra simile il cristiano non potrà partecipare nemmeno
come cuciniere. Gandhi l'aveva già capito quando ancora non si parlava di armi
atomiche. “Io non traccio alcuna distinzione tra coloro che portano le armi di
distruzione e coloro che prestano servizio di Croce Rossa. Entrambi partecipano
alla guerra e ne promuovono la causa. Entrambi sono colpevoli del crimine della
guerra” (Nonviolence in peace and war. Ahmedabad 14 vol. 1). Allora la guerra
difensiva non esiste più. Allora non esiste più una “guerra giusta” né per la
Chiesa né per la Costituzione. […]
E noi stiamo qui a questionare se al soldato sia lecito o no distruggere la
specie umana? Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l'idea di
andare a fare l'eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi
esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato
fino a ora. Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il
dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura. Spero che in tutto
il mondo i miei colleghi preti e maestri d'ogni religione e d'ogni scuola
insegneranno come me. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino
che obbedisce e così non riusciremo a salvare l'umanità. Non è un motivo per non
fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l'umanità
ci salveremo almeno l'anima.
Don Milani