La colonizzazione ha avuto la sua massima espansione tra il XVI ed il XX secolo, ed è per taluni effetti tuttora perdurante. E’ con la colonizzazione che l’uomo moderno occidentale scopre il mondo come finito e lo racchiude in un sistema di comunicazione e di dominazione, del quale egli si pone come il centro. Attraverso questo sistema l’occidentale esporta i propri valori economici, politici e sociali ed esibisce per ciascuno di essi tutta la sua superiorità: un tratto dominante del colonialismo. La coscienza della superiorità dell’occidentale implica il “dato di fatto” dell’inferiorità dell’altro: condizione, questa, che è possibile superare con adeguato aiuto, che giunge appunto con la colonizzazione. Negli intenti del colonizzatore, la sottomissione dell’altro deve essere totale e totalizzante. L’opera di incivilimento è pertanto un obbligo per il colonizzatore ed una necessità per il colonizzato, ed è perseguito con tutti i mezzi. La percezione della dimensione storica del problema della colonizzazione fu immediata, e già nel 1493, all’indomani della scoperta del Nuovo Mondo, il papa Alessandro VI aveva dato inizio alla colonizzazione moderna, con l’emanazione di una Bolla che sanciva la spartizione del mondo allora conosciuto in grandi sfere d’influenza fra le grandi potenze dell’epoca, Spagna e Portogallo, e con l’imposizione della fede cristiana. Si trattava di un’opera d’incivilimento alla quale i popoli barbari dovevano essere soggiogati. La massima autorità spirituale e temporale dell’epoca aveva dunque espresso con chiarezza il nuovo tipo di rapporto che l’uomo occidentale aveva instaurato con le culture altre. Ma la colonizzazione, che procedeva a ritmo serrato con la conquista di nuovi spazi umani oltre che territoriali, non riuscì mai a conquistare da sola pienamente la coscienza europea. Nel cuore stesso della cultura occidentale era andata crescendo una corrente di pensiero, che oggi chiamiamo anticolonialismo, di teologi, scienziati, filosofi, politici ed economisti che presero posizione, già all’indomani delle prime occupazioni militari e durante tutto il periodo coloniale, contro il colonialismo e in favore delle popolazione sottomesse. Fin dalle sue origini la colonizzazione si definì su due grandi componenti, il colonialismo e l’anticolonialismo. Quando abbiamo sopra affermato che il colonialismo è un sistema, intendevamo dire ogni parte di esso ha una sua coerenza ed una forza interna, che danno un senso alle singole parti: per lungo tempo il sistema coloniale è stato dunque capace di contenere colonialismo ed anticolonialismo, e soltanto in anni recenti, con la decolonizzazione, questi due elementi sono entrati in rotta di collisione. Quanto colonialismo ed anticolonialismo potessero far parte di un unico sistema, al punto di convivere e di operare di conserva, lo mostra bene il caso della nascita degli Stati Uniti. Gli stati americani non si ribellarono tanto contro il sistema coloniale (come comunemente si crede), quanto contro l’Inghilterra per la spartizione del potere coloniale. La lotta per l’indipendenza dalla madre-patria non impediva infatti ai neonati Stati Uniti di avere al proprio interno un rapporto di tipo coloniale nei confronti degli indiani e dei neri. Questi ultimi, com’è noto, furono importati dall’Africa con una delle più ignominiose operazioni coloniali, e sottoposti ad un regime di segregazione razziale e di lavoro forzato. Va sottolineato tuttavia come, nel grande rivolgimento della politica mondiale negli anni della decolonizzazione, gli Stati Uniti, a complemento dell’immagine di grande paese di tradizione democratica, hanno potuto meritarsi la fama di Paese liberale non colonialista, per la loro politica internazionale di decolonizzazione. Fu anche in virtù di questa particolare posizione che, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti poterono proporre al mondo una nuova politica di emancipazione dal colonialismo e dal sottosviluppo (punto IV della dottrina Truman). La vicenda degli Stati uniti rappresentò una svolta nella storia del colonialismo, in quanto segnò un taglio del cordone ombelicale che teneva unite le Americhe al sistema coloniale europeo. A distanza di pochi decenni dall’indipendenza degli Stati Uniti fu tagliato anche il secondo cordone ombelicale dell’America – questa volta del Sud - con l’Europa. In questo caso, tuttavia, le condizioni storiche erano assai diverse, in quanto, a differenza degli Stati Uniti, le lotte per l’indipendenza erano state condotte dalle popolazioni creole. Per gli Stati Uniti le ragioni dell’indipendenza furono di natura politica, ma non meno importanti furono le ragioni di ordine economico, che costituivano una delle rivendicazioni dei coloni. Oltre a ciò, gli scambi con l’Inghilterra aumentarono dopo l’indipendenza, e ciò costituì elemento fondamentale di critica all’economia del mercantilismo coloniale. Era sotto questo regime infatti che le colonie erano diventate delle dipendenze economiche della metropoli, un rapporto del tipo centro-periferia (come lo definirebbe la scuola dei dependentistas) che affondava le sue radici storiche nel patto coloniale sancito alla metà del ‘600, sia dalla Francia che dall’Inghilterra.
Le condizioni economiche stavano intanto mutando profondamente in Europa a seguito della rivoluzione industriale, che aveva avuto come conseguenza, fra l’altro, il primato dell’Inghilterra anche nel commercio, e che aveva portato, anche nelle colonie, alla liberalizzazione degli scambi. Verso la seconda metà del XIX secolo si vanno così delineando le premesse all’imperialismo coloniale, l’ultima fase storica del colonialismo, che coinvolse le grandi potenze europee dell’epoca, ponendole spesso in rivalità l’una con l’altra: Inghilterra, Francia, Germania. Diverse ragioni concorsero alla nascita di questo ampio fenomeno: politica di potenza e di prestigio, estensione e rafforzamento del commercio internazionale, sbocco per investimenti di capitali. Il colonialismo coinvolse milioni di persone ed ogni settore della vita pubblica e privata dei colonizzati, e mobilitò risorse nei paesi colonizzatori con l’istituzione di un’apposita amministrazione, di scuole per la formazione di funzionari coloniali, di cattedre universitarie, biblioteche, musei, associazioni culturali e scientifiche, riviste specializzate e così via. Per un movimento di questa portata fu necessario mobilitare l’opinione pubblica, anche perché il mondo economico non era totalmente incline alle imprese coloniali. Con un coinvolgimento così ampio, che comprese anche gli imprenditori, a seguito di un rapido cambiamento della loro posizione, l’imperialismo coloniale si caratterizzò pertanto per il rafforzamento dell’architettura del sistema: si trattò di una struttura che, nell’area coloniale e con la specificità dei rapporti di ogni paese, pose in atto un sistema internazionale forte ed omogeneo. Il nuovo rapporto coloniale rese sistematica la disuguaglianza nord-sud, il razzismo costituiva un elemento comune che non soffriva eccezioni, mentre il funzionamento del sistema era affidato agli interessi delle singole nazioni, secondo i loro concreti bisogni. Il processo di sottomissione coloniale si sviluppò meno con la persuasione che con la forza delle armi: marina ed esercito mobilitarono allo scopo risorse speciali. Le resistenze alle conquiste coloniali furono forti, e alcune popolazioni non furono mai completamente sottomesse. Si svilupparono d’altra parte anche alleanze e connivenze fra le borghesie coloniali e le borghesie dei paesi colonizzati. Furono in particolare queste ultime a far sì che quanto di nuovo veniva portato dalla colonizzazione venisse accettato e, con il passare del tempo e secondo le circostanze, assimilato. Da un punto di vista economico, si puntò allo sviluppo di grandi infrastrutture, rese possibili, come detto sopra, dai risultati della rivoluzione industriale in Europa. La colonizzazione rappresentò uno dei primi grandi fenomeni della mondializzazione, che poggiò anche sulle nuove tecnologie delle comunicazioni. Venne dato impulso alla ricerca e allo sfruttamento delle risorse minerarie, l’agricoltura fu radicalmente trasformata con il regime delle monoculture. La mappa della colonizzazione mostrava forti polarizzazioni verso la madre-patria, e si ritornò a forme di protezionismo. L’organizzazione politica delle colonie doveva essere il risultato di un equilibrio fra l’imposizione da parte della madre-patria e il consenso dei colonizzati. Il colonialismo doveva costruire questo delicato equilibrio, che aveva a che vedere con le scarse conoscenze dell’oggetto della dominazione, le popolazioni e i territori, e con la gestione della dominazione a distanza da parte della madre-patria. I due modelli principali, ai quali si ispirarono le altre potenze colonizzatrici, furono quello inglese, basato sul governo indiretto, e quello francese, basato sull’assimilazione. L’importanza di questi modelli, nonostante essi fossero stati creati con l’intento, almeno teorico, di sottoporli a continua evoluzione mano a mano che procedeva l’opera di incivilimento, si rivelò duratura anche durante il periodo della decolonizzazione.
Sotto il profilo sociale, il colonialismo veicolò una cultura nuova; per non citare che un esempio, l’introduzione della scrittura, sconosciuta a gran parte dell’Africa, consentì l’alfabetizzazione e quindi il possesso di uno dei più potenti strumenti di mutamento psichico e sociale che l’uomo abbia mai inventato. La sottomissione coloniale dei popoli ha significato privare questi della loro identità e della libertà di decidere del loro destino; ed ha significato imporre modelli occidentali che riguardavano modi di vita delle collettività e dei singoli. La medicina portò ai colonizzati nuove speranze e un nuovo rapporto con la vita, la malattia e la morte, e cambiò pertanto il confronto con quanto costituiva il loro universo di riferimento. Cambiavano anche i riferimenti al lavoro nelle campagne, le regole dei rapporti personali e dei rapporti sociali; cambiava perfino la religione. Nei paesi colonizzati il cambiamento era radicale; mentre nel laboratorio del colonialismo, l’Europa, si riteneva che la modernizzazione dovesse fare tabula rasa delle strutture tradizionali, e si riteneva inoltre che, a fronte dei benefici, la perdite fossero ben poca cosa. Per l’Europa il colonialismo ha rappresentato un’estensione della modernizzazione, ovvero del modello di sviluppo, i cui benefici erano incontestabili, anche se non disgiunti da sacrifici: era giusto, ora, che anche i colonizzati dovessero a loro volta sopportarli. Il diritto coloniale era il diritto europeo con poche varianti che le circostanze imponevano; in termini generali il diritto consuetudinario non poteva regolare nulla che fosse in contrasto con il diritto coloniale. La geografia delle aree sottoposte a colonizzazione teneva conto di interessi assolutamente esterni: uno sguardo, ad esempio, della mappa dell’Africa rivela quanto le frontiere siano state tracciate senza tenere conto di quali avrebbero potuto essere i bisogni delle popolazioni. La storia dei paesi colonizzati era soltanto quella dell’espansione europea, in India come in Africa; i popoli di quest’ultima erano stati addirittura bollati come “senza storia”. Si inventò una disciplina, l’antropologia, per meglio conoscere, e per meglio governare, le popolazioni sottomesse; il suo orientamento verso obiettivi diversi da quelli fondanti è avvenuto di recente, non senza polemiche e problemi. Il fatto che fosse stata convocata una conferenza internazionale (Congresso di Berlino, 1884-85) per sancire i principi del nascente imperialismo coloniale, sta ad indicare come questo non intendesse essere nulla di improvvisato, ma volesse piuttosto rispondere ad un progetto di civiltà. Poggiando anche sugli ampi consensi che il colonialismo aveva riscosso, si era venuta costruendo con il tempo una mentalità coloniale, un misto di esotismo, di filantropia, di razzismo e di eurocentrismo, che era capace di accogliere senza particolari reazioni, se necessario reprimendo, le proteste dei popoli oppressi, o che non provava alcun disagio nel recepire nella coscienza collettiva sentimenti ed idee razzisti. Nessuno degli elementi che compongono la mentalità coloniale è venuto meno alla sua funzione nei confronti di quei popoli che oggi chiamiamo in via di sviluppo. Non è difficile leggere nelle pieghe dei molti interventi in favore di questi ultimi delle tracce, più o meno visibili, della vecchia mentalità coloniale.
Storicamente, il significato più diretto di neocolonialismo indica una presunta nuova situazione di dominio esercitata dagli stati europei sui propri ex territori coloniali, a pochi anni di distanza dai processi che portarono questi paesi a conquistare l'indipendenza. Si tratterebbe di un tipo di colonialismo "informale", al contrario di quello "formale" che l'aveva preceduta. Il colonialismo significò la dottrina e l'organizzazione istituzionalizzata di sistemi di dominio di uno Stato su popoli appartenenti a civiltà diverse e lontane. La seconda guerra mondiale diede avvio al periodo che segnò la fine dei sistemi coloniali formali. Tuttavia, se da una parte la decolonizzazione significò il rovesciamento dei processi di colonizzazione, dall'altra parte quest'ultimi condizionarono in maniera determinante molti degli sviluppi del periodo post-coloniale. Il colonialismo determinò in questi paesi una struttura economica diseguale e condizionata dalla produzione di materie prime con una forza-lavoro relegata ai limiti della sussistenza. Come ha affermato l'economista S. Amin, determinò economie rivolte verso l'esportazione e non alla creazione di un mercato interno. Lo stato coloniale prima, e modi e tempi della decolonizzazione, poi, predisposero le strutture istituzionali e politiche che caratterizzano i nuovi stati indipendenti. Nel contesto economico del sistema mondiale post-bellico, gli stati europei capirono che la dominazione politica non era più conveniente e che, invece, era molto più proficuo gettare le basi di solidi legami economici e finanziari, nello stesso momento in cui si procedeva al trasferimento dei poteri di governo alle élites locali e quindi a negoziare l'indipendenza. Un esempio tipico è costituito dalla Gran Bretagna, le cui condizioni finanziarie alla fine della seconda guerra mondiale erano decisamente precarie. Le strutture commerciali e finanziarie che essa sviluppò con le sue colonie nel dopoguerra furono finalizzate a sanare il suo indebitamento con "l'area del dollaro". Quelle stesse strutture costituirono poi la base per i rapporti economici e politici tra le ex colonie resesi indipendenti e la madrepatria. Il termine neocolonialismo cominciò ad apparire nella letteratura negli anni '50 per definire le forme di dipendenza sociale, politica, culturale, ma soprattutto economica che gli ex stati coloniali riuscirono ad esercitare sui propri ex possedimenti territoriali in Asia e soprattutto in Africa. Così, ad esempio, si disse che il Portogallo non partecipò all'ondata di decolonizzazioni degli anni '50 e '60 per il motivo che non "era in grado di neocolonizzare", non aveva cioè il potenziale economico per esercitare un tale legame dominante con i suoi territori "d'oltremare". A dare forma e diffusione alla nozione di neocolonialismo fu innanzitutto K. Nkrumah (1909-1972), leader indipendentista e poi primo presidente del Ghana. Egli, dopo aver guidato all'indipendenza il suo paese, intese il neocolonialismo come forma di dominio del capitale e degli interessi stranieri per mezzo di élites e di interessi interni. Nel 1965 scrisse Neo-Colonialism, The Last Stage of Imperialism, riecheggiando consapevolmente la teoria dell'imperialismo di Lenin.
Nei nuovi stati indipendenti si è andata
rafforzando una diversa forma di dipendenza economica, culturale, sociale e
politica che ha dato luogo al cosiddetto neocolonialismo. Seguendo un certo filo
logico, si può dire che ogni corrente di pensiero che consideri l'esistenza di
forme di neocolonialismo, si accosta alle elaborazioni concettuali della
"dipendenza" e del "sistema-mondo" e afferma che l'unità di analisi per
comprendere i vincoli sociali e i processi decisionali in tutti i paesi è
l'economia mondiale capitalista. La teoria della dipendenza è una teoria
neomarxista sorta nelle scienze sociali latinoamericane alla fine degli anni
sessanta, in reazione alle interpretazioni dualiste dell'arretratezza
dell'America Latina. I suoi teorici videro sviluppo e sottosviluppo come
posizioni funzionali all'interno dell'economia mondiale, e non come stadi
disposti lungo una presunta scala evolutiva. Con ciò, essi intesero
caratterizzare la condizione di subordinazione economica propria dei paesi
poveri. Questi sono situati nella “periferia” del sistema mondiale, quest’ultima
intesa in riferimento al “centro” rappresentato dagli stati dell'Occidente o del
Nord. A dare avvio alla vera e propria scuola della dipendenza fu G. Frank, che,
facendo proprie le tesi avanzate da P. Baran, sostenne che lo sfruttamento del
Terzo mondo era proseguito indisturbato, e in modo ancor più efficace, dopo la
fine del dominio coloniale, e che il sottosviluppo era il risultato della
conquista economica delle aree arretrate da parte del capitalismo metropolitano
avanzato. Lo storico neomarxista I. Wallerstein fuse la prospettiva di Frank con
l'analisi geografica di F. Braudel dell'"economia-mondo", introducendo il
concetto di "sistema-mondo" anche nella lingua inglese. Il periodo successivo
alla seconda guerra mondiale ha visto una crescita immensa dell'interdipendenza
globale, con le seguenti caratteristiche:
* un'estensione dell'influenza di organizzazioni internazionali come il I.M.F.(Fondo
Monetario Internazionale) e la World Bank (Banca Mondiale),
* il corrispondente indebolimento della capacità di particolari paesi o comunità
di isolarsi dal potente impatto della divisione internazionale del lavoro. Le
imprese multinazionali capaci di operare su scala globale sono sempre più
influenti sui livelli di attività economica dei paesi che le ospitano.
Sono, questi, soltanto alcuni aspetti della cosiddetta globalizzazione, un processo tramite il quale la popolazione mondiale sta legandosi sempre più in un'unica società. Il termine globalizzazione si è diffuso solo a partire dagli anni '80. I mutamenti cui si riferisce sono carichi di significato politico, e il concetto è controverso. Per gli economisti, la globalizzazione è legata allo smantellamento delle barriere internazionali che si oppongono al funzionamento del mercato internazionale dei capitali. Da altri la globalizzazione viene ora vista come una "occidentalizzazione del mondo". Essa fagocita ogni differenza di tipo sociale e culturale, ma riguarda innanzitutto la sfera economico-finanziaria. Il dominio incontrastato dell’ideologia capitalista, accompagnato da una uniformità anche culturale detta "pensiero unico", assumerebbe come naturale e ineluttabile una trasformazione favorevole soltanto a una parte minoritaria della società. Si sostiene che il neocolonialismo è caratterizzato oggi, più che dal dominio politico esclusivo di una metropoli sui suoi ex possedimenti coloniali, proprio dal dominio del mercato capitalistico internazionale - di stampo occidentale - su paesi produttori di materie prime, privi di strutture industriali integrate, dipendenti finanziariamente e tecnologicamente, governati da classi politiche pesantemente condizionate dalla struttura della dipendenza economica. Questo dominio del mercato capitalista internazionale sui paesi più poveri agirebbe attraverso vari canali. Tra questi, domina il ruolo tenuto dalle istituzioni finanziarie internazionali, in primis la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, che tengono le leve della politica economica internazionale, devastanti sono anche meccanismi quali la cosiddetta "trappola del debito", che ha fatto sprofondare molte nazioni in via di sviluppo nella crisi di una acuta dipendenza finanziaria.