Il commercio internazionale riguarda lo scambio di beni, merci e servizi tra paesi. Nella letteratura economica e nelle statistiche si considerano soprattutto le merci, i servizi e le forme di scambio registrate come transazioni a mezzo moneta. Gli scambi transfrontalieri di manufatti e prodotti agricoli, molto intensi nei paesi meno industrializzati, e gli scambi internazionali della finanza, delle armi, della droga, degli organi umani e di animali vivi e morti, molto forti tra i paesi meno ricchi e quelli più industrializzati, sfuggono a questa rappresentazione anche se costituiscono una parte consistente delle economie di tutti i paesi. Per queste ragioni il fenomeno studiato dall'economia riguarda soprattutto gli scambi tra paesi attuati mediante il mercato capitalistico. I tentativi di scoprire le basi logiche che regolano l'intrecciarsi dei rapporti di scambio internazionali non sono mancati nel corso del tempo, da quello di Ricardo sui "costi comparati", delle teorie neoclassiche sui "prezzi relativi" fino alle "nuove teorie sul commercio internazionale". Resta tuttavia il fatto che ogni tentativo di analisi che non includa i rapporti di potere tra paesi, la natura dei sistemi economici, i gruppi sociali e le loro strategie non fornisce spiegazione di quanto è accaduto finora e, per questa sua carenza, risulta di scarsa applicazione per la definizione delle politiche e degli obiettivi.
Il quadro attuale del commercio internazionale
riflette tre momenti distinti, anche se intrecciati:
* le differenze dei sistemi produttivi e delle loro rispettive specializzazioni,
dovute alla collocazione geografica, alla disponibilità di risorse naturali,
alle capacità storiche di evoluzione ed innovazione dei vari paesi e comunità;
* i rapporti di potere affermatisi a livello internazionale a seguito della
globalizzazione capitalistica e dell'uso specifico che questa ha fatto delle
nuove tecnologie a scopo di dominio;
* l'evoluzione seguita dai diversi paesi nel determinare il rapporto tra società
e mercato e nel dare origine a fenomeni di cooperazione economica internazionale
e di tipo mesoregionale.
Le esportazioni (vendite di beni e servizi) e le
importazioni (acquisti di beni e servizi) di tutti gli operatori di un paese
vengono registrate nella bilancia commerciale, che è una parte del documento
contabile nazionale che registra i pagamenti con l'estero, cioè la bilancia dei
pagamenti internazionali. Il saldo della bilancia commerciale, ossia la
differenza tra esportazioni e importazioni fornisce un indicatore economico
molto importante. Infatti un saldo positivo (avanzo commerciale) o in pareggio
indica che l'economia di un paese è in grado di soddisfare la domanda di beni e
servizi interna coi propri mezzi; viceversa, un saldo negativo (disavanzo
commerciale) indica che l'economia del paese dipende anche dall'estero. Da parte
delle autorità monetarie, il problema principale legato ai disavanzi commerciali
è l’esigenza di procurarsi la valuta estera necessaria a pagare la differenza
tra esportazioni e importazioni. Per questo scopo è possibile
* ricorrere alle riserve ufficiali in valuta, che però sono limitate e quindi
non possono essere usate per disavanzi commerciali di lunga durata (detti anche
strutturali);
* ricorre a prestiti internazionali, pubblici o privati, i quali però a lungo
andare generano un debito estero per il paese;
* svalutare la moneta nazionale, cioè rendere più costose le valute estere e
quindi le importazioni, e nelle stesso tempo meno costose le esportazioni, in
modo da riequilibrare la bilancia commerciale;
* adottare politiche di protezionismo, ossia rendere più costose le importazioni
imponendo delle imposte (tariffe commerciali), oppure limitare o proibire le
importazioni di determinati beni e servizi;
* adottare delle politiche di aggiustamento strutturale, le quali tendono a
ridurre le importazioni facendo diminuire la domanda interna attraverso
riduzioni della spesa privata e pubblica; aumentare le esportazioni spostando
forza lavoro dai beni nazionali a quelli di esportazioni, diminuendo salari e
costi di produzione, ossia aumentando la competitività dei beni nazionali.
La tendenza a formare disavanzi commerciali strutturali si presenta in situazioni di persistente povertà, ma anche in fasi di sviluppo accelerato. In tal caso, dal momento che gli interventi sono considerati di effetto temporaneo, l'incapacità di mantenere una bilancia commerciale in pareggio o in avanzo costituisce un vincolo alla crescita economica.
Il commercio internazionale, il commercio tra popolazioni diverse, è un'attività umana che risale agli albori della civiltà. Oggi rappresenta un'attività di primaria importanza sulla scena mondiale. Un'antica e controversa domanda che riguarda da vicino i problemi dello sviluppo è la seguente: è conveniente o necessario che un paese partecipi al commercio internazionale? Come si comprese agli inizi dell'economia moderna [Adam Smith (Scozia, 1723-1790), David Ricardo (Inghilterra, 1772-1823)], il commercio internazionale nasce quando in un paese vi è domanda per beni o servizi che non possono essere prodotti internamente o che, se prodotti internamente, risulterebbero più costosi. Da questo punto di vista, l'apertura del commercio con l'estero è vantaggiosa per due aspetti: favorisce la specializzazione internazionale, ossia il fatto che ciascun paese tende a concentrare le proprie risorse economiche nella produzione dei beni che può produrre a minor costo e ad importare quelli che altri possono produrre al minor costo (teoria dei vantaggi comparati); di conseguenza, i consumatori di ciascun paese possono ottenere i beni nazionali al minor costo mondiale e i beni importati al minor costo mondiale. Questa visione dei vantaggi comparati del commercio internazionale elaborata nel XIX secolo costituisce ancora oggi il fondamento principale della dottrina del libero scambio, la quale raccomanda che tutti i paesi mantengano la piena libertà degli scambi commerciali tra loro e non adottino politiche di protezionismo. Un problema non banale nella visione del libero scambio è se, e con quali costi, un paese con piena libertà commerciale riesca anche a mantenere il pareggio della bilancia commerciale evitando i gravi problemi che si presentano nel caso di disavanzi commerciali prolungati. Infatti secondo vari studiosi il commercio internazionale è stato spesso un fattore di limitazione dello sviluppo o di impoverimento della popolazione in molti paesi del Terzo Mondo. Un aspetto importante da considerare è che i vantaggi o gli svantaggi del commercio internazionale dipendono in buona misura dal tipo di beni in cui un paese si specializza, per due principali ragioni: il movimento nel tempo dei prezzi dei beni d'esportazione rispetto ai prezzi delle importazioni, o ragioni di scambio, che a parità di altre condizioni determina l'andamento della bilancia commerciale nel lungo periodo; gli effetti della specializzazione produttiva sulla struttura economica complessiva e quindi sulla crescita, ovvero se il paese si specializza in beni industriali o agricoli, e con quale contenuto tecnologico, con quale intensità di capitale umano, con quale remunerazione dei fattori produttivi.
Le ragioni di scambio sono il rapporto tra il prezzo medio delle esportazioni e il prezzo medio delle importazioni di un paese. Poiché normalmente i paesi usano valute diverse, il prezzo medio delle importazioni va calcolato convertendo i prezzi esteri in valuta nazionale mediante il tasso di cambio. Si dice che le ragioni di scambio diminuiscono o peggiorano se il prezzo medio delle esportazioni diminuisce rispetto a quello delle importazioni; viceversa, si dice che le ragioni di scambio aumentano o migliorano. L'andamento delle ragioni di scambio è un fattore molto importante per determinare la bilancia commerciale di un paese. Infatti questo indicatore è calcolato nel modo seguente: BILANCIA COMMERCIALE = [PREZZO EXP. x VOLUME EXP.] - [PREZZO IMP. x VOLUME IMP.]. Di conseguenza, quando le ragioni di scambio diminuiscono, a parità di altre condizioni, il paese incassa di meno e/o spende di più, quindi la bilancia commerciale peggiora (effetto prezzo); l'effetto precedente viene corretto solo se la diminuzione delle ragioni di scambio, rendendo meno costose le esportazioni ne fa aumentare la domanda estera e rendendo più costose le importazioni ne fa diminuire la domanda interna (effetto quantità). In ogni caso, in presenza di una diminuzione delle ragioni di scambio, un paese o subisce un disavanzo commerciale o deve rinunciare a una certa quantità di beni importati.
La crescita ed il rafforzarsi dei flussi di scambio tra paesi e le loro provenienze e destinazioni hanno subito notevoli variazioni nel corso degli ultimi trent'anni. Uno degli effetti della globalizzazione, dovuto alla metamorfosi della "cellula" fondamentale dell'economia (l'impresa capitalistica) in "metastasi" (la transnazionale), è stata la rapida estensione dei processi di cooperazione ed integrazione economica tra aree ricche e, nel contempo, il loro restringimento rispetto al resto del mondo (il fenomeno dello "sganciamento" delle aree ricche dei paesi della "Triade" - Giappone, Stati Uniti, Unione Europea - dai paesi dell'Africa, di gran parte dell'America Latina, dell'Asia e della ex-URSS).
I dati disponibili mostrano che la tendenza al calo della quota del commercio mondiale dei paesi del Terzo mondo, già iniziata nel periodo 1950-1980, si è ulteriormente rafforzata con l'affermarsi dei processi di globalizzazione. I paesi industrializzati (24 paesi) usufruiscono di circa tre quarti del commercio mondiale (dei quali più della metà i paesi della Triade). I dati forniti dal Rapporto UNDP 1999 sullo sviluppo umano confermano che l'esportazione mondiale proviene per l'86% dal 20% più ricco del mondo, il 17% dal 60% e l'1% dal 20% più povero. La preponderanza degli scambi internazionali tra i tre centri della Triade ed all'interno di ciascuno di questi tre blocchi è ovvia. Il tentativo di gestire questi processi o di ovviare alle conseguenze negative ha dato origine negli anni a numerosi interventi dei governi e degli organismi internazionali. L'Accordo generale sui dazi ed il commercio (General Agreement on Tariffs and Trade GATT) venne istituito a Ginevra il 30 ottobre 1947 e conta attualmente novanta paesi con i quattro quinti del commercio mondiale. L'Organizzazione internazionale per il commercio (OIT), istituita nell'ambito della Conferenza per il commercio e l'occupazione delle Nazioni Unite nel 1947-'48 allo scopo di evitare abusi, soprusi e discriminazioni a danno di paesi nel commercio internazionale, entrò in funzione solo agli inizi degli anni '60. Altri interventi regolatori del commercio internazionale sono: le associazioni di commercio preferenziale, con le quali due o più paesi concordano agevolazioni reciproche sul commercio internazionale di carattere generale o specifico; le aree di libero scambio con le quali si concorda l'eliminazione dei dazi doganali ed ogni altra restrizione al commercio tra i paesi coinvolti, le zone franche che costituiscono aree ristrette di uno stato sottratte ai suoi vincoli doganali; l'unione doganale con la quale i paesi concordano l'apertura del commercio interno e restrizioni comuni verso i paesi terzi, il mercato comune che aggiunge alla libera circolazione delle merci tra i paesi aderenti anche quella dei capitali e della manodopera ed infine l'unione politica che prevede anche l'applicazione di politiche comuni. Uno degli indicatori del rapporto di forza esistente tra paesi nel commercio internazionale è dato dalla ragione di scambio, che esprime il numero delle unità di una data merce da esportare in cambio di una unità della merce di importazione. La teoria economica ha da sempre cercato di individuare le basi obiettive della sua definizione, ma le difficoltà di pervenire ad una definizione soddisfacente non sono dovute ai limiti delle teorie economiche ma al tentativo di tenere separati i comportamenti economici da quelli politici e di potere.
L'OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), del tutto indipendente dalle Nazioni Unite, è l'organizzazione internazionale che ha il compito di attuare un insieme di regole commerciali, tra cui le principali sono il GATT, le misure commerciali relative alla proprietà intellettuale (TRIPS), l'Accordo commerciale sul commercio nei servizi (GATS). L'OMC è stata istituita nel 1995, nel quadro dei negoziati commerciali conosciuti come Uruguay Round. L'Uruguay Round ha allargato le regole del GATT, per coprire le cosiddette "barriere non tariffarie al commercio", come le leggi sulla sicurezza degli alimenti, gli standard di qualità dei prodotti, le politiche degli investimenti ed altre leggi nazionali che hanno un effetto sul commercio. Le regole OMC limitano le politiche non tariffarie che ogni paese può mettere in atto o mantenere. Tra le funzioni dell'OMC vi è quella di fornire un forum per lo svolgimento dei negoziati relativi alle relazioni commerciali multilaterali, i cosidetti round, come il Millenium Round che si inaugura a Seattle alla fine del 1999. Attualmente (novembre 1999) i paesi membri dell'OMC sono 135, mentre 32 hanno status di osservatori. Anche se ufficialmente le decisioni nell'OMC si raggiungono per consenso, i paesi sviluppati, e soprattutto gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone e l'Unione Europea hanno più volte preso decisioni in riunioni ristrette. Le regole dell'OMC rendono possibile per ogni paese sfidare le leggi di un altro, se ritiene che violino le regole OMC, ed i casi di conflitto sono decisi da un panel di tre burocrati. Non ci sono regole sui conflitti di interesse ed il panel quasi mai dispone di informazioni esaurienti sulle leggi nazionali o gli impegni dei singoli governi per la protezione dei diritti dei lavoratori, dell'ambiente o dei diritti umani. Questi "tribunali" dell'OMC operano a porte chiuse: solo i governi sono ammessi e tutti i documenti sono riservati. Una volta presa la decisione, il paese "perdente" ha tre scelte: cambiare la legge nazionale per renderla conforme alle regole OMC; pagare un indennizzo permanente al paese "vincitore"; subire sanzioni non negoziate.
Accordi commerciali sono accordi ufficiali, stipulati tra due o più governi, nel campo degli scambi reciproci di beni e servizi, riguardanti i prezzi, le imposte, i tipi di beni o altre condizioni commerciali. Gli accordi commerciali possono essere bilaterali (tra due governi) o multilaterali (tra un gruppo di governi). In genere gli accordi multilaterali danno vita a istituzioni sovranazionali di garanzia e controllo degli accordi. Attualmente, la principale agenzia multilaterale è la W.T.0. (Organizzazione per il Commercio Internazionale). Dal punto di vista geografico, gli accordi multilaterali si distinguono tra regionali (quando sono tra paesi contigui) o globali (quando interessano gruppi di paesi in più continenti). Il più importante sistema vigente di accordi multilaterali su scala globale è il G.A.T.T. (Accordo Generale sulle tariffe e sui commerci), il quale coinvolge la gran parte dei paesi del mondo, e viene rivisto periodicamente con lunghe e complesse trattative internazionali. Al contrario il N.A.F.T.A. (Accordo Nord Americano per il Libero Commercio) è di scala regionale, comprendendo Canada, Stati Uniti e Messico. Pure di tipo regionale è il MER.CO.SUR (Mercato Comune del Sud America). Dal punto di vista mercantile, gli accordi possono essere generali (quando riguardano tutti i beni scambiati indistintamente) o settoriali (quando riguardano solo specifici settori commerciali). Le Convenzioni di Lomé, stipulate tra la E.U.(Unione Europea) e un gruppo di paesi dell'Africa, Caraibi e Pacifico hanno natura settoriale, in quanto riguardano prevalentemente materie prime.
Gli accordi commerciali costituiscono un elemento
dell'attività governativa internazionale molto antico e sempre molto attivo.
Essi hanno lo scopo di controllare e regolare il commercio internazionale,
cercando il generale beneficio delle parti e collocandosi tra i due estremi del
libero scambio e del protezionismo. La ragione di fondo sta probabilmente nel
fatto storico che né il protezionismo né il libero scambio sono scelte del tutto
vantaggiose per ogni singolo paese, soprattutto se sono scelte unilaterali. Oggi
la gran parte dei paesi che commerciano coi paesi più industrializzati esprimono
interesse a mantenere aperte le relazioni commerciali, ma entro un quadro di
garanzie riguardanti:
* l'effettivo accesso delle merci prodotte sui mercati dei paesi
industrializzati, soprattutto nel campo agro-alimentare
* assenza di discriminazioni fiscali ai danni dei loro prodotti,
* sistemi di stabilizzazione dei prezzi delle materie prime.
Una forma particolare di accordi commerciali non ufficiali, promossi da organizzazioni non governative con singoli gruppi di produttori in paesi del Terzo Mondo, ha luogo con il cosiddetto commercio equo e solidale.
Per libero scambio s'intende una situazione in
cui gli operatori economici possono
* liberamente comprare e vendere beni e servizi con operatori esteri,
* i prezzi dei beni scambiati sono determinati dalle parti e non sono gravati da
imposte fiscali (tariffe doganali).
Il termine libero scambio si riferisce anche alla teoria economica che raccomanda la piena libertà degli scambi internazionali, introdotta in Gran Bretagna dai primi studiosi liberali [Adam Smith (Scozia, 1723-1790), David Ricardo (Inghilterra, 1772-1823)]. Questa teoria prevede che se i paesi sono liberi di commerciare tra loro si creerà una specializzazione internazionale, tale per cui ogni paese produrrà ed esporterà i beni nei quali gode costi più bassi rispetto agli altri paesi, e quindi importerà beni a prezzi minori di quelli praticabili dalle industrie nazionali (vantaggi comparati). In questo modo si determina un livellamento verso il basso dei prezzi dei beni di consumo in tutti i paesi, a vantaggio dei consumatori. E' difficile dire se il libero scambio sia stato praticato integralmente e per lunghi periodi anche nei paesi anglosassoni ed europei, che ne sono tradizionalmente considerati la culla. Infatti la completa liberalizzazione degli scambi commerciali, almeno inizialmente, può comportare numerosi problemi economici, sociali e politici che possono spingere i governi a limitarla. Questo è più probabile nelle strutture economiche deboli e con un settore industriale non ancora sviluppato. Ma può accadere, viceversa, anche nelle strutture economiche con settori produttivi molto sviluppati ma fortemente orientati al mercato interno, e che quindi sono in grado di ottenere interventi protezionisti da parte del governo. Un esempio significativo è fornito dai produttori agricoli nella gran parte dei paesi industrializzati. Dunque non deve apparire paradossale se spesso lo scopo degli accordi commerciali è quello di prendere un reciproco impegno a garantire la libertà commerciale.
Il protezionismo è una linea di condotta
governativa tendente, con vari mezzi, a proteggere settori economici nazionali
dalla concorrenza estera. Gli strumenti principali del protezionismo hanno lo
scopo di rendere più costose, limitare o vietare le importazioni di beni
dall'estero, e sono:
* tariffe doganali, di modo che il prezzo di vendita di un bene importato è
aumentato da una imposta fiscale;
* quote doganali, di modo che la quantità totale che può essere importata di un
bene estero è limitata.
Il protezionismo totale è stato raramente praticato, tranne che dai paesi del socialismo reale. Tuttavia forme parziali e mirate di protezionismo sono state e sono ampiamente utilizzate anche dai paesi capitalisti. Questa pratica è dovuta ai costi economici, sociali e politici che possono sorgere in seguito all'adozione del libero scambio. Il protezionismo è sempre, in buona misura, il risultato di una scelta politica, non solo economica. Infatti le norme protezioniste, in genere, vanno a vantaggio di particolari settori economici. Sebbene il risultato sia di solito il mantenimento di prezzi più elevati, la pressione a favore del protezionismo può essere maggiore se la liberalizzazione commerciale minaccia i lavoratori dei settori protetti. Alcune correnti di studiosi dei problemi dello sviluppo hanno sostenuto i vantaggi di politiche protezioniste, individuando nel libero scambio un veicolo di trasferimento di ricchezza dai paesi non industrializzati a quelli industrializzati. Tuttavia, anche il protezionismo si è rivelato non privo di gravi conseguenze economiche e politiche, come mostrano alcune esperienze dell'America Latina degli anni '70. A lungo andare, i settori protetti possono diventare un peso eccessivo per la collettività, in termini di prezzi alti, bassa qualità dei prodotti, scarsa innovatività, eccessivo potere di condizionamento politico.