Il concetto di indipendenza è innanzitutto strettamente legato al diritto di autodeterminazione dei popoli.
Questo, nel suo aspetto "esterno", riguarda il diritto di un popolo di scegliere lo status politico che autonomamente intende adottare, ossia il diritto all'indipendenza politica.
L'aspetto "interno" concerne invece il diritto di ogni popolo di scegliere liberamente la forma di governo sotto la quale desidera vivere e il diritto di questo stesso popolo di perseguire il proprio sviluppo economico, sociale e culturale.
Il principio di autodeterminazione dei popoli, che affonda le sue radici nella Dichiarazione di Indipendenza Americana del 1776, venne proclamato per la prima volta da Lenin nel 1916, e successivamente dal presidente americano Wilson nel 1918. Inserito nella Carta delle Nazioni Unite dopo la Seconda Guerra Mondiale, incontrò vari ostacoli di natura ideologica e politica, prima che gli Stati Uniti e i paesi socialisti riuscissero a trasformarlo in un principio universale di effettiva applicazione, soprattutto in favore dei paesi ancora sotto dominio coloniale. Il principio divenne così applicabile ai popoli soggetti ad una potenza coloniale, al dominio straniero o a un regime razzista, ma non, per contro, ad una popolazione residente all’interno di uno Stato sovrano dotato di un governo oppressivo o autoritario: è il caso della complicata questione internazionale del diritto di autodeterminazione del popolo curdo. Forte di queste osservazioni, una parte della giurisprudenza internazionale sostiene che il diritto all'autodeterminazione, in realtà, è venuto ad identificarsi con un determinato periodo storico e con una precisa area geografica: ha assunto, per la precisione, una connotazione fortemente “terzomondista”, nella misura in cui i cosiddetti paesi del sud del mondo si sono configurati come il suo campo di azione privilegiato. All'indomani della seconda guerra mondiale, quando le Nazioni Unite riconobbero il diritto dei popoli all'autodeterminazione, questo venne considerato il diritto dei popoli colonizzati a costituirsi in stati indipendenti. Tuttavia, è da dire che sul piano dell'azione le Nazioni Unite non risposero pienamente alle aspettative del processo di decolonizzazione, e quest'ultimo prese avvio autonomamente negli anni a seguire. Le indipendenze politiche delle colonie avvennero perciò nel quadro di un passaggio di poteri dagli stati colonizzatori alle élites politiche dei paesi colonizzati. Altre volte il motore degli eventi fu costituito in maniera più decisiva da guerre di liberazione nazionale, condotte da movimenti di liberazione nazionale attraverso lotte armate. A mano a mano che i movimenti di opposizione al potere coloniale assumevano una fisionomia più organizzata, legata ad un’ideologia di liberazione nazionale, essi avviarono strategie di lotta miranti all'indipendenza delle colonie dalla "madrepatria". Quando questi movimenti si trovarono di fronte alle rigidità poste dagli stati colonizzatori, essi passarono a forme di opposizione armata, che in taluni casi si trasformarono in guerre di liberazione. Vi sono anche esempi di dichiarazioni di indipendenza non seguite da guerre di liberazione, come la Repubblica Araba Democratica Saharawi dichiarata indipendente dal Fronte Polisario, ma ancora sotto la dominazione politica e territoriale del Marocco. Nel diritto internazionale l'equiparazione delle guerre di liberazione nazionale ai conflitti armati internazionali, sostenuta dai paesi colonizzati o ex-colonizzati, e dai paesi socialisti, venne riconosciuta nella Conferenza di Ginevra del 1977. Da allora, tuttavia, l'assenza di un organismo idoneo a imporre la sua applicabilità, ha permesso che la sua incisività rimanesse fortemente compromessa in casi clamorosi: emblematico quello della lotta del popolo palestinese o della maggioranza nera in Sudafrica. Gli stati sono tradizionalmente ostili ad ogni tipo di insurrezione interna, tanto più se mira all'indipendenza o alla secessione; così, gli stati hanno spinto il diritto internazionale a considerare le insurrezioni come affari interni. In particolare, il concetto di "guerra giusta" non è stato uniformemente accolto nella dottrina e nella prassi internazionale. Recentemente, in Sudafrica, l’African National Congress, che ha ottenuto la liberazione del paese dal regime razzista di minoranza bianca nel 1994, ha invocato il concetto di guerra giusta riguardo agli anni della lotta di liberazione, soprattutto in relazione ai presunti atti terroristici compiuti in quel periodo. All'inizio degli anni '70, le Nazioni Unite hanno delegato il compito di riconoscere e conferire legittimità giuridica ai movimenti di liberazione nazionale alle organizzazioni regionali, come l'Organizzazione per l'Unità Africana o la Lega Araba. Il riferimento alla lotta contro il colonialismo ha reso difficile il riconoscimento internazionale di movimenti di lotta per l’indipendenza come quello eritreo, che rivendicava l’indipendenza da un governo ritenuto oppressore, ma che non era riconducibile alla fattispecie coloniale. Tradizionalmente, l'obiettivo del nazionalismo è stato l'instaurazione dell'autodeterminazione nazionale, conquistata sia grazie ad un processo di unificazione sia attraverso il sovvertimento di un regime straniero. Tuttavia, in epoca contemporanea l'emergere di nuovi e più radicali "fronti di liberazione" (es. FLN in Algeria, fondato nel 1954, il FLNV in Vietnam nel 1960, così come la OLP in Palestina del 1964) ha palesato un’aspirazione di questi movimenti non solo all'indipendenza, ma anche ad una piena emancipazione economica e sociale. Spesso i movimenti di liberazione nazionale hanno adottato alcune forme di socialismo rivoluzionario, solitamente di ispirazione marxista, che offrivano un’analisi dei processi di oppressione e sfruttamento adatti a interpretare l'esperienza coloniale, così come a illustrare una prospettiva di mutamento sociale. È da dire infine che, durante il periodo della guerra fredda, i locali movimenti di liberazione vennero spesso assistiti dalle due superpotenze mondiali, USA e URSS.
Spesso indipendenza e teorie dell'imperialismo, soprattutto di stampo marxista, si sono intrecciati. Tra le ragioni per cui la dottrina leninista dell'imperialismo è ancora oggi la più diffusa tra i sostenitori del marxismo vi è il fatto che essa ebbe una maggiore capacità di rivolgersi a fenomeni imperialistici diversi da quelli dell'espansione coloniale stessa. Nel tempo essa venne integrata fino ad essere estesa al fenomeno del neocolonialismo, alle situazioni, cioè, in cui i paesi "sfruttati" mantennero un governo almeno formalmente indipendente dagli stati "sfruttatori". Dopo la Seconda Guerra Mondiale emerse una nuova importante interpretazione dell'imperialismo dovuta ai marxisti americani Baran (1910-1964) e Sweezy, che fornirono forse il più importante contributo marxista all'analisi dei fenomeni del neocolonialismo e del sottosviluppo. Animati dal proposito di superare la teoria di Lenin, ancora troppo legata ad un’economia di tipo concorrenziale, i due studiosi costruirono un modello teorico che considerava più esplicitamente l'economia monopolistica come il principale fattore dell'imperialismo. Per quanto riguarda il problema del sottosviluppo, questa teoria si riallacciò a un filone di pensiero ampiamente sviluppato nel secondo dopoguerra ad opera di numerosi studiosi marxisti, diretto a sottolineare lo sfruttamento dei paesi neo-indipendenti. Questi sarebbero rimasti inseriti in un sistema economico mondiale dominato dai paesi capitalistici più forti e dalle grandi imprese multinazionali. Il termine colonialismo è stato spesso usato come sinonimo di imperialismo, e più specificamente dell’imperialismo di tipo "diretto" o "formale". Ciò è dovuto sicuramente al fatto che il periodo storico comunemente considerato come "il periodo di splendore" dell'imperialismo coincide con la spartizione coloniale dell'Africa e in parte dell'Asia tra il XIX e il XX secolo. In realtà il colonialismo è solo una delle forme che l'imperialismo ha assunto nel corso della storia, con contenuti più complessi che nelle epoche precedenti. In linea generale, con il termine “colonizzazione”, ci si riferisce al processo di espansione e di conquista, alla sottomissione per mezzo dell'uso della forza e della superiorità economica di altri territori e popolazioni. Il termine “colonialismo”, invece, definisce più propriamente la dottrina e la pratica politica dell'organizzazione di sistemi di dominio, ossia all'organizzazione di forme statuali coloniali, il cui fine era la strutturazione di ciascun paese assoggettato in funzione di un razionale sfruttamento delle risorse. Dopo la II Guerra Mondiale, di fronte all'esaurimento della spinta imperialista degli stati europei e del Giappone, al processo di decolonizzazione, e alla sopravvivenza del capitalismo, molti studiosi marxisti o neomarxisti hanno sentito l'esigenza di costruire nuove teorie legate all'espansione imperialista. Essi hanno visto il fenomeno dell'imperialismo continuare a manifestarsi sia nei rapporti egemonici instauratisi fra le due nuove superpotenze (USA e URSS) e gli stati nel loro blocco, sia nel cosiddetto "neocolonialismo", praticato soprattutto dagli Stati Uniti. In seguito, il neocolonialismo prese ad essere riferito, più che al dominio politico esclusivo di una metropoli sui suoi ex possedimenti coloniali, al dominio del mercato capitalistico internazionale sui paesi produttori di materie prime. Questi sono dipendenti dai paesi ricchi sul piano finanziario e tecnologico, e governati da classi politiche pesantemente condizionate dalla struttura della dipendenza economica. In questo modo l'imperialismo viene oggi a essere collegato a temi come il sottosviluppo, la povertà, etc. Seguendo questa linea di pensiero, all'idea dello sviluppo di un "imperialismo informale" è legata la cosiddetta teoria della dipendenza. Si tratta di una teoria neo marxista sorta nelle scienze sociali latino-americane alla fine degli anni sessanta. Da alcuni è considerata una ripresa del concetto leninista di imperialismo, in cui l'attenzione viene rivolta agli effetti di quest'ultimo sulle economie sottosviluppate. La teoria della dipendenza sorse in reazione alle interpretazioni dualiste dell'arretratezza dell'America Latina: i suoi teorici videro sviluppo e sottosviluppo come posizioni del tutto funzionali all'interno dell'economia mondiale, e non come stadi disposti lungo una presunta scala evolutiva. Con ciò, essi intesero caratterizzare la condizione di subordinazione economica propria dei paesi poveri. Questi sono situati nella “periferia” del sistema mondiale, quest’ultima intesa in riferimento al “centro” rappresentato dagli stati dell'Occidente o del Nord.
L'imperialismo può manifestarsi attraverso diverse sfere, dal governo, alla politica, dall'economia alla cultura. Secondo una diffusa lettura si è distinto tra due forme di imperialismo:
Allorché una potenza esercita un pieno controllo su un'area dipendente, da cui sottrae la capacità decisionale.
Quando uno stato potente esercita un dominio effettivo su uno più debole senza occuparlo materialmente. In quest'ultimo caso, gli strumenti possono essere i più vari, dalle minacce di interventi militari alle pressioni diplomatiche.
L'espressione “imperialismo” è relativamente recente, e solo verso la fine dell''800 ha preso avvio lo studio sistematico di tale complesso di fenomeni, in concomitanza con la rapida spartizione fra gli stati europei di buona parte dell'Asia e soprattutto dell'Africa, tra il 1870 e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Il dibattito sull'imperialismo si è articolato attorno a interpretazioni del fenomeno assai diverse. Si deve allo studioso inglese J. Hobson (1858-1940) la prima riflessione sistematica di tipo economico sull'imperialismo (L'imperialismo, 1902). Per Hobson, il capitalismo inglese, sviluppato ormai in concentrazioni monopolistiche, avrebbe provocato un eccesso di risparmio che tuttavia non avrebbe trovato utilizzo interno, a causa dell'impoverimento della maggior parte della popolazione. La necessità di facilitare gli investimenti esteri, quindi, avrebbe indotto la spinta espansionistica. Su queste basi, Hobson suggeriva una serie di interventi volti ad aumentare il potere di acquisto delle masse, per poter disinnescare la tendenza imperialista. Per gli studiosi di scuola marxista il nesso tra capitalismo e imperialismo è più profondo o addirittura intrinseco. R. Hilferding (1877-1941) collegava l'imperialismo a un mutamento fondamentale dei processi di accumulazione. Esso sarebbe dovuto infatti alla crescente concentrazione e centralizzazione del capitale, alla diffusione di pratiche di monopolio e alla dominazione organica del capitale finanziario su quello industriale. R. Luxemburg (1870-1919) vedeva l'incorporazione forzata di popolazioni e territori nei processi di accumulazione del capitale come una caratteristica costante di quest'ultimo, dovuta ai tentativi dei suoi agenti di superare le croniche tendenze alla sovrapproduzione. Lenin (V. Il'ic Ul'janov, 1870-1924) ne L'Imperialismo, Fase Suprema del Capitalismo (1917), riteneva che l'imporsi dei processi di concentrazione della produzione e del capitale aveva posto termine al periodo della libera concorrenza dello sviluppo capitalistico, e trasformato il mondo in un teatro di lotta economica tra associazioni monopolistiche internazionali. Questa lotta sarebbe destinata a concludersi nella guerra imperialistica per la spartizione dei domini coloniali. Il libro di Lenin fu sicuramente una delle opere più influenti, a livello politico, in tutto il mondo. In risposta alle teorie marxiste, le principali tesi della socialdemocrazia storica, tra cui soprattutto quella di K.J. Kautsky (1854-1938), ribattevano che l'imperialismo aggressivo non costituiva una fase necessaria del capitalismo, bensì una delle forme politiche, tra molte possibili, che aveva adottato. Essa poteva dunque essere superata da una pacifica collaborazione tra le potenze imperialistiche nell'organizzazione del mercato mondiale. La teoria formulata da J.A. Schumpeter (1883-1950), nel 1919, invece, ribaltava completamente i termini del pensiero marxista, affermando che l'imperialismo dei paesi capitalisti era semplicemente un fenomeno legato alla persistenza di atteggiamenti culturali e di interessi di origine precapitalistica, destinati a scomparire con la piena affermazione del capitalismo. Si può osservare che la totalità delle interpretazioni dell’imperialismo appena esposte partono dal presupposto che tale tendenza rifletta il carattere peculiare dello stato imperialista o del gruppo politicamente e socialmente dominante in esso. Ma vi è chi ha sostenuto che l'imperialismo di alcuni paesi abbia potuto essere una risposta a condizioni esterne, facendo riferimento soprattutto alla tradizione di pensiero della cosiddetta "ragion di stato" e, in particolare, alla dottrina tedesca dello stato di potenza. Quest’ultima attribuisce l'imperialismo alla struttura anarchica dei rapporti internazionali.
Il successo delle strategie rivoluzionarie leniniste fra il 1917 e la II Guerra Mondiale è stato inteso generalmente dai marxisti come una forte prova a sostegno della validità della teoria dell'imperialismo cui erano associate. Tuttavia l'evoluzione dell'economia mondiale capitalista dopo la fine del conflitto mondiale ha dimostrato i limiti storici di queste teorie. Il capitalismo è sopravvissuto abbandonando le vesti di imperialismo territoriale, mentre si è sviluppata un'ondata senza precedenti di decolonizzazione, unita alla delegittimazione dell'espansionismo territoriale e alla ricostruzione del mercato mondiale. Sentimenti e teorie di rifiuto dell'imperialismo sono sempre stati particolarmente diffusi e popolari. L'imperialismo è stato generalmente percepito come una contraddizione rispetto a principi quali il diritto di autodeterminazione dei popoli, e così le teorie dell'imperialismo partono ora in grande maggioranza da un punto di vista contrario ad esso. Lo stesso termine di “imperialismo”, dopo essere emerso con un significato positivo, ha acquistato definitivamente una valenza negativa. Come abbiamo visto, nelle teorie di ispirazione marxista l'imperialismo era generalmente concepito come uno stadio del capitalismo; la conseguenza, quindi, era una spinta a rispondere con una rivoluzione, o una guerra, che rovesciasse il capitalismo stesso. Questi principi sono stati seguiti, almeno in teoria, anche da quelle lotte di liberazione dal dominio coloniale ispirate dall'ideologia marxista-leninista (es: le ex-colonie portoghesi in Africa). Nelle analisi più approfondite, tuttavia, l'idea che l'imperialismo moderno – sia nelle vesti di colonialismo formale, sia in quelle di egemonia informale – sia esclusivamente il prodotto di fenomeni riguardanti le metropoli, ha perso molta credibilità. Qualunque forma esso possa assumere, nell'instaurarsi di un rapporto imperialistico ci sono sempre due attori: esso è perciò una dinamica tra due poli. Si è detto che per mantenere una qualunque forma di dominio, lo stato imperialista deve aver "collaboratori" indigeni (o compradores, secondo una certa terminologia). Perciò anche in passato i movimenti anticoloniali, o "anti-imperialisti", hanno spesso preso di mira gli agenti della colonizzazione all'interno della propria società, e hanno cercato successivamente di ribaltare quelle strutture interne che avevano permesso le diverse forme di dominio. Oggi il ruolo degli attori e delle strutture delle nuove forme di dominazione viene spesso ignorati da una retorica che o tende a negarlo in toto, o, all'opposto, ad attaccare i "nuovi imperialisti", genericamente identificati con gli attori della globalizzazione.