I movimenti migratori - l'abbandono di un dato territorio, dove si è svolta la vita del soggetto singolo o gruppo fino a quel momento, per insediarsi in modo permanente o temporaneo in un altro territorio - sono antichi quanto la storia umana. Tali movimenti possono avvenire entro i confini di un dato paese (emigrazione dal Sud al Nord Italia) o tra due paesi (dall'Italia alla Germania o dalla Nigeria all'Italia). Le migrazioni internazionali hanno raggiunto oggi dimensioni sconosciute nei secoli precedenti, grazie in parte allo sviluppo dei mezzi di comunicazione e dei trasporti. La maggior parte delle migrazioni, compresa la fuga dei rifugiati e richiedenti asilo, avvengono in e tra paesi del Sud del mondo, paesi che dispongono di meno risorse per assistere o agevolare l'inserimento dignitoso di un gran numero di persone che migrano.
L’aumento delle superfici coltivate e l’urbanizzazione hanno ristretto il territorio delle migrazioni interne. Il dibattito intorno alle cause delle migrazioni internazionali è acceso e controverso. Secondo vari autori, possono essere interne ai Paesi di emigrazione (cause di espulsione) o d’immigrazione (cause di attrazione). Le cause che spingono ad abbandonare il proprio Paese sono molteplici:
* mancanza di prospettive per il futuro;
* peggioramento delle condizioni di vita;
* cause economiche;
* equilibrio nel mercato del lavoro;
* degrado ambientale;
* cause demografiche;
* disgregazione della struttura sociale tradizionale;
* instabilità politica;
* violazione dei diritti umani;
* trattati internazionali e confini arbitrari.
Le cause di attrazione verso un certo Paese sono altrettanto varie:
* aspettative di migliori condizioni di vita;
* presenza di opportunità di lavoro;
* minore densità demografica;
* cause psicologiche: curiosità e gusto per l’avventura;
* conoscenza di modelli di vita occidentali e di sviluppo industriale;
* maggiore modernizzazione;
* divario tecnologico.
Gli effetti delle migrazioni nelle zone di esodo
possono essere diversi:
* squilibri tra le fasce d’età della popolazione;
* effetti economici: rimesse degli emigranti, alleggerimento del mercato del
lavoro, inflazione, nuovo mercato estero per i prodotti locali;
* abbandono delle aree agricole;
effetti sociali (diminuisce il conflitto ma aumenta la disgregazione);
* maggiori conoscenze acquisite da chi rientra in patria.
Nelle zone d’immigrazione questi effetti possono
essere i seguenti:
* aumento demografico;
* effetti economici: gli immigrati spesso coprono settori abbandonati dalla
manodopera locale, favoriscono la flessibilità del lavoro impedendo a non poche
fabbriche di chiudere e risultando così funzionali al sistema economico * dei
Paesi di destinazione;
* conflitti tra generazioni;
* xenofobia;
* perdita dell’identità culturale.
Le alternative alle migrazioni sono legate agli investimenti economici e tecnologici da parte dei Paesi industrializzati nel Terzo mondo e a un’appropriata politica demografica da parte di quest’ultimo. Quel che è certo è che non vanno affatto d’accordo il processo di integrazione economica globale e la mancata liberalizzazione nella politica della circolazione delle persone, qualunque opinione si abbia su entrambi i fenomeni.
Legati all'immograzioni si hanno vari fenomeni:
L’assimilazione è un processo di abbandono della propria cultura, che ha per conseguenza l’assunzione di modelli culturali peculiari della società ospitante. Frutto, in principio, di una visione etnocentrica e coloniale e, più di recente, dell’appello a principi egalitaristi, essa è generalmente naufragata contro il persistere di un’identità etnica, intesa come risorsa organizzativa e canale di solidarietà.
L’integrazione è viceversa, secondo una definizione dell’Onu, un processo progressivo verso la partecipazione attiva delle persone immigrate alla vita del loro nuovo Paese di residenza, grazie a una conoscenza, un adattamento e una comprensione reciproca da parte sia delle persone arrivate, sia di quelle autoctone.
Il pluralismo culturale è una vera e propria coabitazione tra culture diverse: si parla di multiculturalità quando è un pluralismo fatto anche d’incomprensioni, rifiuti e conflitti; d’interculturalità, al contrario, quando è capace di rispettare il mantenimento delle differenze, i diritti umani e la legittimità di ogni cultura.
Le persone profughe sono quelle costrette a lasciare il proprio Paese. Tra di esse, l’UNHCR (Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati) considera rifugiato (profughi e rifugiati) «chiunque, a seguito di un timore assai fondato di essere perseguitato per motivi razziali, religiosi e nazionali, o perché appartiene a un determinato gruppo sociale o professa certe opinioni politiche, vive fuori del territorio della propria patria e si trova nell’impossibilità e persino, a causa dei suoi timori, rifiuta di avvalersi della protezione della propria patria». I confini tra emigrato (scelta volontaria), profugo (costretto per svariati motivi) e rifugiato (costretto perché perseguitato) non sono sempre netti. Gli Stati tendono sempre più a considerare i profughi e i rifugiati come migranti per motivi economici, in modo da assoggettarli alle norme sull’immigrazione anziché a quelle sull’asilo, il che consente loro di respingere o espellere i nuovi arrivati.
Secondo una stima delle Nazioni Unite, all'inizio del 1998 c'erano più di 120 milioni di persone che vivevano in paesi diversi da quelli d'origine e 13 milioni di rifugiati riconosciuti dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR); l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) stima che le migrazioni internazionali interessino circa 16 - 20 milioni di persone in Africa, 6 - 9 milioni in Asia, 20 milioni in Europa escluse l'ex-URSS e l'ex-Iugoslavia, 15 - 17 milioni nel Nord America, 7 - 12 milioni nell'America centrale e meridionale e 6 - 7 milioni nell'Asia occidentale (stati arabi). Di fronte a questa dimensione del fenomeno, l'ONU ha ritenuto opportuno ribadire che i diritti dei migranti sono diritti umani, promuovendo ed approvando il 18 dicembre 1990 dall'Assemblea Generale la "Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie".
Le cause delle migrazioni internazionali sono molteplici: nel rapporto finale della Conferenza ONU sulla Popolazione e lo Sviluppo (Conferenza del Cairo), si individuano fra i fattori che costringono le persone a migrare, "squilibri economici internazionali, povertà e degrado ambientale insieme all'assenza di pace e sicurezza, violazioni di diritti umani e livelli diversi dello sviluppo di istituzioni giudiziarie e democratiche". Le cause delle migrazioni vengono generalmente divise in fattori d'espulsione e di attrazione (push and pull factors). I primi riguardano l'alta disoccupazione o sottoccupazione, la povertà, i conflitti armati, il degrado dell'ambiente e i disastri naturali, le violazioni dei diritti nei paesi di partenza. Mentre i fattori di attrazione possono essere riassunti in quel complesso di fattori economici, sociali e culturali che concorrono a fare prevedere delle opportunità maggiori e/o una qualità della vita migliore per sé da parte di chi emigra.
A livello istituzionale, il bisogno di mano d'opera da parte di alcuni paesi ha rappresentato un forte fattore d'attrazione di migranti. In molti paesi, interi settori d'attività dipendono in misura rilevante dalla presenza di lavoratori immigrati e, in alcuni casi, molti di questi immigrati sono stati incoraggiati o anche reclutati per ricoprire i posti disponibili in periodi d'espansione economica. Non di rado, i lavoratori immigrati svolgono lavori pesanti, mal retribuiti e con minor protezione sociale e in periodi di difficoltà economiche, sono i primi ad essere espulsi dal processo produttivo. Oltre ai più tradizionali fattori di attrazione/espulsione, la globalizzazione dell'economia nella sua forma attuale ha comportato anche una globalizzazione del mercato di lavoro, nonostante le misure restrittive adottate da molti governi dei paesi industrializzati per limitare le migrazioni verso i propri paesi. Occorre evidenziare alcune tendenze in atto relative alle migrazioni internazionali. In primo luogo, le migrazioni sono in espansione in tutte le parti del mondo grazie alle crescenti difficoltà economiche ed al collasso degli equilibri economici, politici, sociali ed ambientali che permettevano alle persone di vivere e rimanere nei propri paesi. In secondo luogo, è in crescita il numero delle persone che sono costrette ad emigrare a causa di conflitti armati (che avvengono nella maggior parte all'interno di singoli paesi e meno fra un paese e l'altro), di persecuzioni politiche o a causa degli effetti disastrosi di alcuni fenomeni naturali (inondazioni, uragani, siccità, desertificazione, ecc.). Un esempio alquanto eloquente in questo senso è rappresentato dal flusso migratorio proveniente dall'area balcanica, in particolare dalle ex-repubbliche jugoslave, in seguito ai vari conflitti che si sono susseguiti nella zona. Il recente conflitto in Kosovo ha posto le basi per migrazioni forzate per i prossimi anni, anche per le chiusure nei confronti dei profughi provenienti da questa area. Un'altra tendenza è l'aumento delle ostilità xenofobe e razziste nei confronti dei migranti e rifugiati, visti come capri espiatori di una serie di problemi sociali, dalla disoccupazione e criminalità al senso di insicurezza personale e alla diminuzione della protezione sociale (minor welfare), in particolare nelle aree urbane. Questa ultima tendenza è particolarmente vera nei paesi industrializzati e, nel caso dei paesi industrializzati dell'Europa occidentale, la rappresentazione negativa dei migranti e le ostilità che ne derivano sono entrate a far parte delle linee politiche e del discorso pubblico di molti partiti che, sebbene non siano fra i primi nei vari paesi, sono riusciti a "nobilitare" alcune di queste idee, rendendole così accettabili anche fra sinceri democratici. Basta ricordare qui l'enorme influenza che le posizioni razziste (il differenzialismo culturale) del Fronte Nazionale di Le Pen in Francia e la crescita elettorale ad essa conseguente hanno avuto sull'atteggiamento del governo di centro destra che ha varato le leggi "Pasqua" sull'immigrazione in quel paese. Allo stesso modo, le posizioni della Lega Nord sull'immigrazione in Italia non sono estranee all'orientamento che pervade alcune parti della legge 40/98 sulla condizione dello straniero non appartenente all'Unione Europea. Una conseguenza di questa accettabilità acquisita in termini politici è che mentre i governi di questi paesi quasi sempre stigmatizzano i casi più eclatanti di violenza xenofoba, il loro impegno nei confronti del razzismo quotidiano, ed in particolare di quello istituzionale, è minimo. Infine i governi, sulla spinta di quelli dei paesi industrializzati del Nord, stanno imponendo misure restrittive e punitive di controllo dell'immigrazione, tendenti a scoraggiare le persone dall'immigrare nei loro paesi e, parallelamente, stanno cooperando per armonizzare le politiche di controllo delle migrazioni internazionali. Per i paesi dell'Unione Europea, questo tipo di orientamento politico nei confronti delle migrazioni internazionali è definito in termini molto chiari nel Documento di strategie sulla politica dell'Unione Europea in materia di migrazione ed asilo preparato dalla Presidenza austriaca dell'UE nella seconda metà del 1998.
È ben noto che l'Italia è stata a lungo un paese di emigrazione e che solo verso la fine degli anni '70 ha cominciato ad essere interessata dall'immigrazione proveniente dal Sud del mondo e solo negli anni '90 il flusso in entrata degli immigrati ha superato quello in uscita di cittadini italiani che emigravano verso altri paesi. Agli inizi, l'immigrazione verso l'Italia è stata dovuta più alle politiche restrittive adottate da altri paesi europei (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda ecc.) che fino ad allora avevano assorbito i maggiori flussi migratori, e meno ai propri specifici fattori d'attrazione. In quella fase, molti immigrati considerarono l'Italia più come paese di transito che di soggiorno definitivo. Fino alla prima metà degli anni '80, il fenomeno rimane molto contenuto, come è testimoniato dall'assenza di una legislazione specifica per regolarlo che arriva, in modo molto parziale, solo nel 1986 e in modo più complesso nel 1990 e bisogna aspettare fino al marzo 1998 (L.40/98 del 6 marzo) per avere la prima legge organica sull'immigrazione. Quantitativamente, l'immigrazione in Italia rimane un fenomeno limitato rispetto alla situazione negli altri paesi UE di tradizionale immigrazione: alla fine del 1998, l'incidenza percentuale degli immigrati sulla popolazione italiana è di poco più del 2% contro una media del circa 5% sul totale della popolazione UE e punte dell'8,8% in Germania, 9% in Belgio, ecc. I paesi di provenienza sono distribuiti in tutte le aree continentali anche se non in maniera omogenea: prevalgono gli immigrati provenienti dall'Europa, seguiti dagli africani, asiatici ed americani. Alla fine del '97, circa il 13,6% degli immigrati in Italia provenivano dai paesi UE ed il restante da più di cento paesi diversi. Fra i 20 primi paesi di provenienza per consistenza, ci sono tre paesi UE (Germania, Francia e Gran Bretagna) gli USA e la Svizzera; le cinque nazionalità più numerose sono nell'ordine: Marocco, Albania, Filippine, USA e Tunisia. Dopo un decennio in cui si riteneva che l'immigrazione verso l'Italia da paesi non UE fosse un fenomeno temporaneo e l'Italia un paese di transito verso altri paesi europei o gli Stati Uniti, negli ultimi anni l'aumento delle richieste di ricongiungimenti familiari è il segno della stabilizzazione sul territorio italiano di molti soggetti immigrati. Allo stesso modo, è in crescita il numero dei minori figli di famiglie immigrate e questo aspetto è largamente ritenuto un indicatore del desiderio di stabilizzarsi, inserendosi nella società. Con la legge sulla condizione dello straniero non appartenente all'Unione Europea (L.40/98), l'Italia ha riconosciuto il diritto all'unità familiare come passo indispensabile per un corretto governo dell'immigrazione ed ha posto le basi per il superamento di alcune difficoltà procedurali che in passato avevano reso problematico l'esercizio di questo diritto. Questa presenza dei minori è particolarmente importante per la scuola ed il mondo educativo in generale: corrisponde alla realtà di alcuni distretti scolastici il fatto che la presenza di minori figli di famiglie immigrate ha evitato la chiusura di alcune scuole. Questo è particolarmente vero per la fascia d'età dai 3 ai 13 anni e questa presenza ha reso evidenti la necessità di mettere la scuola in grado di affrontare la nuova situazione. Purtroppo cominciano già ad emergere gravi segni di difficoltà da parte di minori figli d'immigrati, fra i quali è in aumento l'abbandono scolastico, da imputare sia alle difficoltà del contesto familiare nel complesso sia anche a problemi specifici nel rapporto con la scuola. Non di rado l'immagine che la scuola restituisce a questi ragazzi di se stessi e dei contesti d'origine risulta negativa ed in contrasto con la percezione di sé. Questo provoca una percezione di non appartenenza ed esclusione che agisce poi negativamente sul rendimento scolastico e sulla socializzazione. Anche in Italia, così come avviene in molti altri paesi industrializzati, gli atteggiamenti nei confronti della presenza degli immigrati sono ambigui: sempre più si riconosce che questa presenza è necessaria per il paese e per alcuni settori d'attività, ma allo stesso tempo la stessa viene spesso stigmatizzata come causa di molti mali della società. D'altra parte, la condizione di vita degli immigrati in Italia risulta ancora molto disagiata (quando non emarginata) in misura maggiore rispetto a quella in paesi dello stesso livello di sviluppo industriale dell'Italia. Questo stato di disagio si manifesta in modo particolarmente grave per il lavoro, in parte per una specificità del mercato di lavoro italiano (alte percentuali di piccole imprese, alte quote di assunzione irregolare ecc.), in parte per barriere all'accesso previste dalle leggi nei confronti degli stranieri non cittadini di paesi UE. Così il tasso di disoccupazione fra gli immigrati è notevolmente superiore a quello degli autoctoni e i lavori disponibili sono in prevalenza quelli più pesanti, a bassa remunerazione ed a volte pericolosi per la salute. Ugualmente grave è la difficoltà di accesso ai servizi: casa, servizi socio-sanitari, istruzione ecc.; in altre parole, l'integrazione degli immigrati nella società italiana è ancora un processo all'inizio e solo con la Legge 40/98 questo aspetto è entrato a far parte delle politiche migratorie, la cui applicazione è demandata agli enti locali.
Accade spesso che parlando delle migrazioni internazionali dai paesi del Sud del mondo verso i paesi più industrializzati, e l'Italia in particolare, venga tirata in ballo la cooperazione allo sviluppo. Si sostiene che per fermare o contenere questi movimenti migratori, sia necessario potenziare la cooperazione allo sviluppo con i paesi di provenienza delle persone immigrate. Questa tesi ambigua viene sostenuta sia da coloro che sono apertamente contro l'immigrazione e che la esprimono politicamente nella nota formula "aiutiamoli a casa loro" per evitargli l'emarginazione in cui vivrebbero qui, sia da parte di alcuni che si dichiarano non contrari all'immigrazione. Mentre appare evidente che i vari progetti di cooperazione danno lavoro ad alcuni cittadini dei paesi dove vengono realizzati, è invece dubbio che l'offerta di lavoro che i progetti di cooperazione comportano sia quantitativamente (e qualitativamente) tale da impedire l'immigrazione, almeno quella parte che avviene per ricerca di lavoro. Questo perché le risorse destinate alla cooperazione nel suo complesso sono irrisorie rispetto a quelle che ci vorrebbero per investimenti in grado di incidere sulla disoccupazione e sottoccupazione di massa in molti paesi del Sud. Non solo. La cooperazione governativa (crediti all'esportazione, donazione a governi amici o controllabili, prestiti a tassi agevolati ecc.) assorbe la maggior parte delle risorse destinate alla cooperazione, ed è ben noto che questo tipo di cooperazione risponde molto di più a logiche di politica estera (creare e mantenere aree di influenza) che a bisogni dei paesi destinatari. È alquanto indicativo il fatto che il maggiore beneficiario africano degli aiuti allo sviluppo del governo USA negli anni '80 e '90 non è stato il Ciad o la Somalia ma l'Egitto. È superfluo sottolineare che il maggiore aiuto dagli USA all'Egitto è dettato più da ragioni geo-politiche che dalla maggior gravità della situazione socio-economica rispetto ad altri paesi africani. Un'analisi della distribuzione degli aiuti italiani allo sviluppo darà, con molta probabilità un risultato di questo tipo. Se per dimensione la cooperazione allo sviluppo non è in grado di determinare un cambiamento significativo nel bisogno di emigrare per motivi economici, meno ancora è in grado di fare per quella parte dei movimenti migratori dovuta all'insicurezza personale per guerre, persecuzioni o disastri naturali.
Passando alla cooperazione non governativa, non sembra che possa incidere sul quadro macroeconomico al punto tale da offrire alternative all'immigrazione ad un gran numero di persone, dato la quota minima dei fondi della cooperazione che viene assegnata a questo settore e la complessità delle situazioni nei paesi in via di sviluppo. I progetti delle ONG hanno senso e riescono a dispiegare meglio tutta la loro efficacia quando sono rivolti a gruppi bersaglio ristretti ed in alcuni casi (rifugiati, profughi e sfollati per disastri ambientali ecc.) risultano insostituibili per la sopravvivenza di parti delle popolazioni interessate da tali fenomeni.
Mentre le politiche governative si occupano di cooperazione ed immigrazione nel senso dell'uso del primo per contenere la seconda, le stesse non lasciano spazi al contributo che gli immigrati dai PVS possono dare nei progetti di cooperazione. La legge fondamentale per la cooperazione italiana allo sviluppo (L. 49/87), con la sua richiesta di cittadinanza italiana come requisito per partecipare nei progetti delle ONG all'estero finanziati dal governo italiano, chiude la strada a tutti quelli immigrati che potrebbero essere interessati a lavorare in un progetto di cooperazione partendo dall'Italia. L'unica possibilità lasciata a qualsiasi persona immigrata interessata alla cooperazione italiana è quella di essere assunta e retribuita come personale locale, nel caso di un progetto nel suo paese d'origine. Resta da capire perché una persona immigrata deve scegliere, partendo dall'Italia, di essere assunta e retribuita a quelle condizioni che aveva implicitamente rifiutato andandosene dal paese, ben sapendo che il proprio omologo italiano viene pagato, per le stesse mansioni, molto di più. È chiaro che questa legge, che esclude in teoria anche i cittadini UE, in realtà protegge la cooperazione italiana solo dalla concorrenza degli immigrati dal Sud del mondo, poiché i loro paesi non dispongono di simili programmi di aiuto allo sviluppo verso altri paesi. Alla luce di queste considerazioni, l'unica via possibile per rendere la cooperazione strumento efficace contro l'immigrazione rimane quella degli accordi inter-governativi che impegnano i governi dei paesi di provenienza degli immigrati a limitare l'emigrazione verso l'Italia o a ricevere senza difficoltà i suoi cittadini espulsi, in cambio della concessione di maggiori quote dei fondi per la cooperazione. Questa strada implica di fatto più repressione nei paesi in questione e doppia spinta a ricorrere all'immigrazione clandestina.
Questa è la strada che, con la legge 40/98, l'Italia ha imboccato per fare fronte all'immigrazione da alcuni paesi dell'area mediterranea (Marocco, Tunisia ed Albania). L'emigrazione, attraverso le rimesse dei migranti, rappresenta al momento l'unica via seria di trasferimento di risorse dal Nord al Sud del mondo, che non comporta un'ipoteca sui destini delle generazioni future sotto forma di debito estero. Questo fatto non sfugge alla destra politica, che da una parte dice di "aiutarli a casa loro" e dall'altra presenta in Parlamento delle proposte di legge per limitare fortemente la possibilità di rimessa di soldi da parte degli immigrati. Da fonti statistiche sia nazionali che internazionali, emerge che le rimesse degli emigrati rappresentano oggi una fonte insostituibile di risorse per lo sviluppo nei paesi d'origine. L'emigrazione rappresenta quindi uno dei modi più importanti di accumulazione di capitali per piccoli investimenti in imprese familiari in molti paesi del Sud del mondo. Il contributo positivo di questa voce può essere meglio apprezzato prendendo in considerazione il potenziale occupazionale del suo impiego nel paese d'origine: quando un emigrato invia ai propri parenti parte del suo risparmio per costruirsi una casa, crea direttamente posti di lavoro, ma mette anche in moto un meccanismo positivo a cascata più ampio. La cooperazione internazionale, governativa e delle ONG, così come il commercio internazionale delle merci, i flussi di capitali e quanto altro viene scambiato tra le nazioni, comporta l'aumento dell'emigrazione dal Sud al Nord. E non solo sembra giusto che aumenti l'immigrazione nelle attuali condizioni di forti squilibri nella distribuzione della ricchezza tra Nord e Sud del mondo, ma è opportuno e necessario che le associazioni di volontariato, le ONG, così come gli enti locali ed i singoli cittadini impegnati nella conquista e difesa dei diritti delle persone immigrate o per il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni del Sud, debbano sostenere apertamente questa posizione di fronte all'opinione pubblica, smettendola di giocare di rimessa su un punto importante nei rapporti Nord - Sud come la necessità di più cooperazione e più immigrazione.
Cosa diversa dalle migrazioni è il nomadismo, che è una forma di vita imperniata sullo spostamento sistematico all’interno di un territorio, come risposta razionale alla povertà dell’ambiente circostante, che può essere caratterizzato, ad esempio, da mancanza d’acqua, da una lunga stagione secca o da risorse foraggere disperse e stagionali. Su 18 milioni di nomadi nel mondo, quasi 8 milioni vivono in Europa (i Rom) e altri 5 vivono in Africa. Nel Terzo mondo, la maggioranza vive nel mondo arabo. Essi si dividono in: a) nomadi puri, che si spostano su aree vastissime ed evitano legami continuativi coi popoli sedentari; b) seminomadi, che hanno un riferimento sedentario ed effettuano spostamenti stagionali verso i pascoli come allevatori transumanti. Nei deserti la vita umana si organizzò fin dalle origini in maniera nomade, basata com’era su vincoli geografici e necessità economiche: il deserto, appunto, e il bisogno di trasportare sale, oro, schiavi. I nomadi si spostavano per razziare, commerciare e cercare pascoli migliori (in caso di transumanza stagionale). La vita nomade su grandi distanze fu resa possibile dall’addomesticamento del cammello. I bisogni principali che il nomade del deserto deve soddisfare sono dunque l’acqua, l’erba e il sale. Al tempo in cui i nomadi trasportavano sale e altri generi preziosi attraverso il deserto, si era creato un certo equilibrio. La presenza delle mandrie infatti contribuiva a creare un equilibrio ecologico. Il continuo spostarsi delle popolazioni consente di regolare i cicli di crescita di piante, arbusti ed erbacce. Favorisce altresì il trasporto a lunga distanza dei semi (nel vello degli animali, ad es.), obbliga l’uomo a pulire i pozzi e non porta all’esaurimento dell’acqua né dei pascoli. Le distanze percorse da un gruppo nomade variano in rapporto al numero delle persone: i Masai, ad esempio, si muovono in pascoli entro un raggio di 100 km dai pozzi, mentre nel Sahel si percorrono anche 700 km all’anno. I cammelli seguono le vie orizzontali per tutto l’anno, gli ovini si spostano una volta all’anno sulle colline. In Marocco gli allevatori piantano ancora le tende sui pascoli, ma hanno un alloggio fisso in città e si spostano su fuoristrada statunitensi e giapponesi. In Tibet circa il 70 per cento dei pastori nomadi del nord possiede oggi una dimora fissa.
La compatibilità tra agricoltura e pastorizia fu valida fino all’insorgere del colonialismo, che aggregò sistematicamente i nomadi ai popoli sedentari tradizionalmente nemici, riempiendo di frontiere le rotte di migrazione periodica. L’organizzazione coloniale mirò al maggiore sfruttamento delle risorse, al trasferimento di prodotti e profitti in Europa, privilegiando in questo modo il predominio dell’organizzazione urbana e una forzata sedentarizzazione. L’allevamento di molte etnie pastorali è di carattere seminomade (transumante) e viveva fino a pochi anni fa in simbiosi con le forme di agricoltura sedentaria, integrando reciprocamente produzione e bisogni: scambio di sale, prodotti animali (latte, bestiame, concime) e di altro genere provenienti da lontano con cereali, fagioli, frutta, ortaggi, acqua e vestiti, e la possibilità di procurarsi riposo, mogli e denaro in cambio del lavoro degli animali. Tali rapporti funzionano abbastanza bene finché i contadini non occupano le aree più umide destinate al pascolo transumante. Talora infatti la terra dei sedentari rappresenta un ostacolo al movimento delle mandrie. A sua volta, il contadino teme gli effetti distruttivi del bestiame sui raccolti. Le origini dell’ostilità e della ripugnanza culturale per l’agricoltura vanno ricercate nell’organizzazione sociale guerriera dei nomadi e nel disprezzo che essi portano per le popolazioni attaccate alla terra. Oggi i nomadi stanno cambiando abitudini. Molti giovani vorrebbero sedentarizzarsi e rifiutano l’antico stile di vita, ma questa non si può dire una tendenza generalizzata. Alcuni sono andati a stabilirsi ai margini delle città e vivono miseramente a metà fra nomadismo e sedentarietà. Il passaggio dei nomadi alla vita sedentaria - un fenomeno in crescita da quando l’autocarro ha ucciso il cammello e il fuoristrada il cammelliere - è in genere presentato come un indice di sviluppo, ma la riconversione all’allevamento sedentario è costosissima e implica un notevole sconvolgimento culturale. Le soluzioni possibili sono diverse:
* diminuire il numero degli gli animali vaganti a
quanti una certa area di pascolo può sopportare,
* raggiungere la consapevolezza che l’accoppiata agricoltura
estensiva-allevamento offre benefici maggiori della sola agricoltura intensiva,
* migliorare la qualità del pascolo con interventi sul manto vegetale.
Il nomadismo dei Rom li ha resi bersaglio di feroci persecuzioni, che culminarono con lo sterminio nazionalsocialista. La politica di persecuzione della popolazione nomade è anche un prodotto della politica dello Stato diretta, fin dal XIX secolo, a integrare - con le buone o con le cattive - gli emarginati. Ancora oggi si registrano molti episodi di persecuzione delle popolazioni nomadi in tutta l’Europa orientale.