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Conflitti

I conflitti sono processi di interazione tra entità individuali e/o forme di associazione collettiva o istituzioni in contrapposizione, o anche all’interno di essi. In questa pagina vengono trattati ad esclusione della dimensione psicologica, che trova spazio in altre pagine della sezione. A seconda delle parti in tensione e dell’ambito nazionale o internazionale in cui s’innesca la contesa, variano anche le modalità conflittuali sul piano culturale, politico ed economico, che incidono sui piani
* sociale,
* politico,
* internazionale.

Rispetto alla quantità degli attori di un conflitto, si distinguono conflitti uni,- bi- e multi-laterali; i conflitti possono poi essere:
* latenti o manifesti,
* pacifici o violenti (armati/bellici),
* regolati da norme o del tutto o parzialmente anomici.

Sia i conflitti politici che quelli internazionali possono trasformarsi in crisi interne ed esterne, maturando fino ai conflitti bellici. Non tutti però concordano sulla necessaria negatività dei conflitti, essendo plausibile che situazioni in se stesse conflittuali possano stimolare dei cambiamenti niente affatto negativi: ad esempio, le proteste popolari anti-coloniali hanno coinciso con movimenti proto-nazionalisti. Possiamo avere diversi tipi di conflitto:

Conflitto sociale

Gli obiettivi di un conflitto sociale attengono al comune desiderio d’eliminare una fonte di disagio sul piano sociale.

Conflitto politico

Il conflitto sociale si converte in conflitto politico quando l’obiettivo è impedito da una controparte o dall’autorità, sia esso l’accesso al potere o la soddisfazione di bisogni primari o d’interessi particolari. Nel caso di soggetti appartenenti a categorie sociali e/o politiche svantaggiate, il fine del conflitto da questi innescato sarà l’accesso a risorse dalle quali si sentano esclusi - non ultime il potere o il controllo sociale, ottenibili tramite partecipazione pubblica, rappresentatività politica, prestigio, ricchezza etc. I conflitti politici si estrinsecano in diverse modalità: dimostrazioni, tumulti, scioperi, tensioni sommerse, attriti inter- e infra-regionali, fino ad arrivare ai conflitti armati, civili o fra Stati.

Conflitto internazionale

I conflitti internazionali s’innescano per obiettivi immediati ed evidenti, spesso, materiali e tangibili: ad esempio, l’acquisizione di porzioni di territorio, mutamento di confini, accesso a risorse naturali etc. Altrettanto spesso, gli obiettivi sono meno palesi: attengono ad esempio al prestigio o alla difesa di interessi nazionali che si avvertono come minacciati.
Spesso si palesa una certa non-intenzionalità del conflitto: il “dilemma della sicurezza” (J.H. Herz), frutto dell’endemica anarchia del sistema internazionale, porta ciascuno Stato a misurare la propria forza con quella attribuita agli stati vicini, in un crescente atteggiamento d’autodifesa.

Complex political emergencies

Con l’espressione “complex political emergencies” (CPE) si indicano quelle correlazioni politiche in stato di fibrillazione, che spesso interessano unità territoriali contigue e che, pronte a collassare, minacciano l’insorgenza o la riproduzione dei conflitti.

Low intensity conflicts

Con l’espressione “low intensity conflicts” (LIC) si individuano quei fenomeni conflittuali apparentemente circoscritti nelle cause e negli effetti, ma che non è sempre possibile controllare e contenere.

Riproduzione dei conflitti

Accanto alla regionalizzazione si intrecciano le dinamiche della riproduzione dei conflitti, spesso veicolate lungo direttrici transnazionali da politiche dell’identità e della violenza. Per contrappunto, si moltiplicano iniziative di pace da parte di Organizzazioni interregionali, con successi potenzialmente più duraturi delle iniziative attivate da Organizzazioni internazionali e sovranazionali, come l’ONU.

Conflitti etnici

L’instabilità che caratterizza, ad esempio, i Balcani o le politiche nazionali africane viene spesso ricondotta all’incapacità di risolvere rivalità interne. Queste ultime vengono definite tribali, quasi a cristallizzarne l’immutabilità antistorica ed anacronistica attraverso i secoli. In realtà, la referenzialità etnica è sì una componente dell’identità, ma analisi più approfondite delle complesse interrelazioni politico-economiche che stanno alla base delle CPE e dei LIC rivelano la facile manipolazione di quei fenomeni sociali. La legittimazione dell’etnicismo come variabile strategica, assicura la diffusione di una categorizzazione che continua a servirsi di un «idioma biologico diffuso e totalizzante» (Geertz) non dissimile da quello razziale, a tutto vantaggio di interessi economici e politici. E questi spesso oltrepassano i confini nazionali degli stati in causa. L’etnicizzazione dei conflitti è la strumentalizzazione dei richiami a un’identità comune. Essa ha facile presa su comunità economicamente emarginate. Élites e lobby di potere hanno largamente tratto vantaggio da queste strategie, non di rado “inventando” culture artificiose attorno a simboli falsamente attribuiti al passato, secondo un paradigma ascritto alla cosiddetta «invenzione della tradizione» (Hobsbawm e Ranger). L’etnicizzazione può realizzarsi secondo diverse modalità:
creazione di ascendenti fittizi: simboli, miti, personaggi del passato;
recupero di antiche istituzioni, riadattate alla situazione contingente,
manipolazione della memoria collettiva, nell’intento di (rin)saldare l’autoreferenzialità di un gruppo sociale attorno all’identificazione d’una provenienza comune.

Tali meccanismi favoriscono la selezione, il recupero o l’accentuazione di certi valori che, con il tempo, o si trasformano in esperienza culturale e sociale realmente vissuta. Ma può accadere, al contrario, che siano destinati a essere definitivamente abbandonati, una volta esaurito lo scopo per il quale sono stati creati. Certo, le cosiddette identità etniche sono un prodotto strumentale, frutto di una costruzione e di una sublimazione dell’ethnos quale complesso simbolico (Tullio Altan) funzionale al gruppo. Ma altri studiosi (Triulzi), lungi dal demonizzarle, definiscono le dinamiche etniciste come «strategie di salvaguardia del gruppo» e «reti di protezione e collegamento in tempo di crisi». Con questo rilevano il rapporto inversamente proporzionale in cui stanno i fenomeni etnicisti rispetto all’insorgenza dei conflitti. Secondo questa dinamica, tanto minore sarà il numero delle identità culturali in competizione, tanto maggiore sarà la probabilità di polarizzazione della competizione e, quindi, del conflitto. Un ricorso ed un abuso improprio della categorizzazione etnicista va condannato. Nell’intento di individuare il crimine di genocidio, ad esempio, i giudici del Tribunale penale internazionale per il Ruanda (1994) non hanno esitato a fare uso di termini quali “pulizia etnica” e “stupro etnico”, quale forma di genocidio. In questo modo si sono legittimati, attraverso la loro “giuridicizzazione”, meccanismi sociali del tutto esclusivi, che sottendono alla totale eliminazione di un’identità percepita come distinta e costruita come forza nemica. In seguito alla cosiddetta era dello sviluppo ed al perseguimento tutto occidentale delle diverse agende politico-economiche nei processi di modernizzazione, s’è accresciuto il divario fra ricchi e poveri, in un’aperta contrapposizione fra Nord e Sud. Ciò è sfociato in una ribellione più o meno latente al complesso d'inferiorità che discende dalla gerarchizzazione fra “Primo”, “Secondo”, “Terzo” e addirittura “Quarto mondo”. È emersa sempre più la dimensione psicologica di un conflitto che sembra difficile regolamentazione e controllo, ed è passibile di estrinsecarsi nelle più diverse modalità come con il terrorismo.

 

La conoscenza delle fasi della cosiddetta escalation dei conflitti si rivela essenziale per i processi di pacificazione e di risoluzione dei conflitti. Essa si rivela utile anche nell’individuazione, ad ogni stadio dell’escalation, dei vari attori, delle comparse e delle rispettive strategie: tutte premesse indispensabili alla riconciliazione nazionale. Nel decodificare l'escalation dei conflitti il modello più riuscito è forse quello di F. Glasl che ha individuato nove fasi:

1) consolidamento di una situazione di disagio;

2) dibattiti e polemiche volti a delineare le contrapposizioni (in termini di valori, tradizioni e memoria collettiva);

3) azioni, non parole: il monologo di ciascuna delle parti reitera i temi della seconda fase, li radicalizza, trasformando argomentazioni razionali o semi-razionali in miti;

4) immagini e coalizioni: si realizza nella percezione reciproca secondo pregiudizi ed immagini stereotipate dell’altro. Si realizza cioè la fase della “costruzione” del nemico e della solidarietà contro di esso;

5) Si innesca quindi un conflitto d’alternanze tra azione e reazione, in cui la controparte, per così dire, “perde la faccia”. Ogni suo gesto viene infatti interpretato in chiave eticamente negativa;

6) seguono strategie di minaccia, che dalla formulazione all’ultimatum servono a testimoniare della determinazione di una delle parti. A partire da questa fase, il conflitto si fa incontrollabile.

7) limitate azioni distruttive per indebolire il senso di sicurezza della controparte;

8) tentativi di frammentazione del nemico attraverso la distruzione di obiettivi strategici, dei suoi punti vitali;

9) nell’ultima fase si assiste a un potenziamento della volontà di annientare il nemico, tale che inibisce lo stesso istinto di conservazione e permette di mirare all’abisso nella certezza che anche il nemico seguirà. Significativa la sua identificazione: “insieme nell’abisso”.