A differenza della nozione più generale di conflitto si parla di guerra solo quando esiste una precisa volontà da parte di una o più parti (soggetti collettivi) di portare una crisi conflittuale fino alle sue conseguenze estreme. Ciò può avvenire attraverso l’uso della violenza o con la minaccia esplicita o implicita del suo uso. L’obiettivo può essere quello di eliminare l’avversario (distruggendolo, ma talora semplicemente inducendolo ad uno spostamento fisico più o meno temporaneo), o semplicemente di far prevalere la volontà della controparte. Con guerra si intende generalmente un conflitto armato fra due o più stati, ma una definizione di guerra non può prescindere dalla valutazione dei seguenti elementi:
attori coinvolti: il coinvolgimento di nazioni appartenenti a continenti diversi produce una guerra mondiale; quello delle popolazioni civili porta alla guerra totale;
natura degli obiettivi: una guerra si dice assoluta se obiettivo primario è l’annientamento del nemico; è limitata o reale, in rapporto alla specificità di un obiettivo diverso.
attitudine degli attori: la guerra può infatti essere preventiva, offensiva, difensiva o, ancora, dei nervi;
mezzi usati: in base a tali dati si hanno guerre di tipo convenzionale, nucleare o tecnologica;
motivazioni o cause della guerra, che agiscono sulla partecipazione degli attori a livello individuale, di gruppo o di sistema di gruppi. Esse possono essere:
* ideologiche, tra cui rientrano le guerre di
religione, le guerra sante, le rivoluzioni, etc.,
* politiche,
* psicologiche,
* giuridiche,
* economiche,
* tecnologiche.
Le forme di conflitto bilaterale della seconda metà del XX secolo hanno per lo più coinvolto i soggetti più svantaggiati della comunità internazionale. In questo caso, l’obiettivo economico dell’accesso a risorse endemicamente scarse e della conquista territoriale si rivela il più importante. L’appartenenza ad una medesima nazione delle parti coinvolte in un conflitto armato è la condizione necessaria di una guerra civile (interna o intestina). Essa viene generalmente combattuta fra autorità e sfidanti, laddove l’autorità non si dimostri in grado di soddisfare la domanda delle parti o non sia disposta a concedere ad alcune tra le parti sociali neppure la possibilità d’esprimere una domanda (è il caso dei sistemi repressivi). Quest’ultima è una delle condizioni prevalenti dello scatenarsi di guerre civili nei paesi in cui più debole è l’esperienza democratica e in cui predomina un distacco fra la popolazione e lo Stato. Obiettivo delle guerre civili è, in genere, il conseguimento del potere o il mutamento di un sistema di governo e/o della regolamentazione del sistema sociale. Questi traguardi possono essere ottenuti in vari modi:
attraverso la rimozione dell’elemento rappresentativo e/o dell’organizzazione politica che detiene il potere (obiettivo delle guerre rivoluzionarie;
attraverso l’annientamento politico, economico e/o fisico della fazione o del gruppo individuato quale nemico (fenomeni di pulizia e stupro etnico sono ascrivibili a questa categoria);
attraverso la destabilizzazione dei rapporti sociali e politici interni o internazionali (ad esempio per mezzo di atti di resistenza, attiva o passiva, e di terrorismo). Le guerra rivoluzionarie, pur potendo anche assumere una valenza internazionale, nascono prevalentemente dal dissenso nei confronti di un sistema interno di distribuzione del potere.
Quando un soggetto giuridico internazionale ne
aggredisce un altro, nella convinzione che questo possa essere assoggettato per
il suo inferiore grado di civiltà, o per la minore capacità di gestione degli
affari politici ed economici, o ancora per la disparità tecnica tra gli
armamenti contrapposti, si avranno tutte le condizioni per una guerra coloniale.
Ma quanto all’ultimo punto, come hanno dimostrato la sconfitta delle forze
britanniche contro gli Zulu ad Isandlwana in Sudafrica (1879) o la disfatta di
Adua in Etiopia (1896) dove contro le forze di Menelik naufragarono le mire
imperialistiche italiane, la presunzione di superiorità non si tramuta
automaticamente in successo. Aldilà del prestigio politico internazionale, o
dello sfogo di crisi politico-economiche interne (quale fu il caso
dell’aggressione Giapponese contro la Cina nel 1937), scopo delle guerre
coloniali è stato quello di garantirsi una serie di risultati economici:
il controllo di più spedite vie d’accesso a mercati stranieri: si pensi, ad es.,
al controllo del Mar Rosso, via d’accesso ai mercati asiatici, esercitato in
primis dall’Inghilterra;
il possesso di terra per le colonie di popolamento: è stato il caso delle guerre
condotte contro gli Indiani d’America o di quelle sulla “frontiera orientale”
combattute in Africa australe nel corso del XIX secolo;
l’ottenimento di manodopera o di materie prime da rielaborarsi in patria a basso
costo o, comunque, di risorse: nel primo caso si può pensare all’occupazione
britannica dell’India e dell’Africa occidentale da parte francese e britannica;
nel secondo il caso più recente è l’aggressione irakena al Kuwait nel 1991.
Caratteristica comune del colonialismo del XIX e
del XX secolo è stata la coscrizione di milizie locali al servizio delle potenze
coloniali, per il controllo del territorio e per un loro reimpiego sui campi di
altre guerre coloniali e non. All’insegna dello sfruttamento umano, i
prigionieri di guerra sono stati inoltre impiegati per la costruzione di strade,
di ferrovie e di varie infrastrutture nelle colonie. All’imposta presenza
straniera ed ai suoi eserciti si sono opposte ovunque diverse forme di
resistenza. Il colonialismo ha esperito forme di resistenza, tanto nella forma
attiva, culminata in più di una guerra di resistenza, che nella forma passiva,
come nella satyagraha, la pratica della non violenza opposta dal mahatma Gandhi,
dapprima nell’Unione sudafricana e, quindi, in India. Le guerre di resistenza
hanno per lo più una matrice popolare: si pensi all’insurrezione anti-spagnola
capeggiata da Padre Hidalgo in Messico (1810-11); esse hanno anche assunto forma
di guerre sante, come le campagne militari condotte da Al-Hajj Umar (1857-59)
contro i francesi, in Africa occidentale, o quelle lanciate dal mahdi Muhammad
Ahmad Ibn ‘Abd Allah contro le truppe anglo-egiziane in Sudan (1883); altre
ancora sono state guerre di difesa da parte di entità territoriali minacciate,
com’è stato il caso dell’Impero di Samori in Africa occidentale, ancora in
opposizione ai francesi (1891). Per rimanere all’esempio africano, gli studiosi
hanno interpretato molte forme di conflitto di cui sono state protagoniste le
masse contro l’autorità coloniale, per lo più abortite, come una reazione a una
presenza allogena, ossia come forme di resistenza all’imperialismo. Tale
tendenza storiografica, tuttavia, si è affermata solo in tempi recenti, quando,
nell’analizzare le proteste emergenti nel mondo pre-capitalista delle colonie –
agrario, minerario e in misura minore industriale – sono stati valutati appieno
fattori discriminanti per la definizione di quei conflitti come guerre di
resistenza: gli interessi lesi che hanno scatenato tali reazioni, il contesto
aggravante delle economie d’esportazione, il ruolo delle élites intellettuali e
politiche, i rapporti di collaborazione tra autorità e sfidanti, le situazioni
conflittuali contestuali, il discriminante dato dal livello di coscienza
politica e di coesione fra le fila di quanti si sono ribellati. È tra gli anni
‘60 e i ’70, e inizialmente soltanto nell’ambito degli studi sulla liberazione
delle colonie portoghesi, che si è radicata quella corrente storiografica
africanista che mira alla ricerca di una continuità fra la cosiddetta resistenza
primaria alla penetrazione occidentale ed i movimenti rivoluzionari di
guerriglia che caratterizzano la seconda fase della decolonizzazione africana.
La nuova attitudine interpretativa si è poi allargata a tutto il continente
africano, con non trascurabili vantaggi ermeneutici:
ha stimolato lo studio delle forme di amministrazione politica precoloniale in
Africa,
ha rivalutato le lotte di resistenza islamica opposte alla penetrazione
francese, inglese e, più tardi, italiana, in Libia: proprio a queste lotte,
infatti, le più moderne rivolte per l’indipendenza si sono richiamate;
ha finalmente messo in luce il ruolo della stratificazione sociale africana,
nonché della formazione e dell’evoluzione della classe contadina e del suo
livello di interazione con le altre classi sociali africane e con gli
intellettuali, che si sono fatti interpreti delle rivendicazioni
indipendentiste.
Soprattutto nei paesi in cui più debole è la
tradizione democratica, il XX secolo ha sviluppato una serie di modalità di
guerra, tali da mettere seriamente alla prova la definizione tradizionale.
Quest’ultima pone l’accento sull’aspetto giuridico dello stato di guerra.
Rispetto a tale definizione:
un conflitto bellico è regolato da norme,
le parti sono soggetti di diritto internazionale,
almeno una è costituita da un governo, ossia da un organo giuridico dello stato,
dotato del potere riconosciuto di mantenere legge e ordine su un certo
territorio; di proteggere la propria sovranità, nonché l’integrità territoriale
rispetto all’esterno o l’estensione della propria autorità su tutto il
territorio rispetto a gruppi dissidenti interni. Tutto ciò avviene attraverso
l’esercizio del monopolio della violenza.
È basandosi su questo assunto che la definizione
tradizionale non ammette che una ribellione o una rivoluzione possano rientrare
nell’accezione giuridica di guerra. Questa infatti prevede che soltanto gli
eserciti regolari – vale a dire entità collettive individuabili ed organizzate,
che rispondono ai rispettivi governi della difesa degli obiettivi perseguiti nel
conflitto armato – siano legittimi strumenti di guerra. Tuttavia, i conflitti
bellici seguiti alla guerra fredda hanno indotto a un radicale cambiamento di
tali rigide prospettive, per i seguenti motivi:
si sono progressivamente svuotati di legittimità gli elementi che concorrono
alla definizione tradizionale di guerra, essendo progressivamente declinato
l’aspetto giuridico nella sua funzione regolamentatrice del contatto violento e
armato;
il fenomeno della privatizzazione della guerra ha prodotto conseguenze sia nei
soggetti non internazionalmente riconosciuti (spesso organizzazioni criminali),
sia negli eserciti regolari. Questi ultimi, si può dire, sono oggi decaduti. Nei
paesi meno avanzati ciò avviene per le difficoltà di sostentamento, per gli alti
costi dell’addestramento o per la scarsa fiducia da parte delle élites politiche
verso le forze militari organizzate. Ciò significa che il monopolio della
violenza passa dallo stato ad unità combattenti, ossia a gruppi paramilitari,
unità di autodifesa o mercenari forniti da “agenzie di sicurezza” la cui sede
centrale, generalmente, è ubicata all’estero;
la guerra fredda ha dimostrato che lo sfogo in uno scontro armato non è una
condizione non sufficiente a determinare uno stato di guerra. Uno degli effetti
meno controllabili di questa situazione attiene alla legittimità ed alla
credibilità politica degli interlocutori nelle negoziazioni di pace, come i casi
della ex-Jugoslavia e della Somalia hanno ampiamente dimostrato.
Negli anni ‘90, escludendo la crisi del Golfo
(1990-91), pochissime guerre hanno opposto due o più stati. Ora le guerre,
specie nei paesi democraticamente meno avanzati, sembrano giocarsi per la
maggior parte sul fronte interno, anche se interessi più vasti e trasversali
fanno sì che molti ne siano gli attori occulti. La dinamica di questi conflitti
è quasi sempre la stessa:
un governo autoritario, che controlla le forze di sicurezza e impedisce
l'accesso democratico al potere,
viene contrastato da gruppi di oppositori che ricorrono alle armi.
Con sempre maggior frequenza, poi, gruppi criminali si mascherano di una valenza
etnico-politica, facendo leva su sentimenti etno-centristi presenti in alcuni
strati della popolazione, per sfidare il potere, sostituirglisi e conquistare il
monopolio della violenza. Il potere reagisce inasprendo la repressione e spesso
armando milizie paramilitari, creando così una situazione di destabilizzazione
in un clima di crescente insicurezza interna, che grava sulle già difficili
condizioni in cui versa la popolazione. Ciò favorisce lo scoppio di scontri
sporadici dalle conseguenze permanenti, di cui non di rado sono vittime i
civili. Si tratta dei cosiddetti crimini contro l’umanità, perpetrati, spesso,
tanto dalle legittime forze armate che da unità combattenti irregolari. Durante
la guerra la popolazione è vessata da coscrizioni e sistemi repressivi o, più
sovente, da povertà e carenza di mezzi, spesso conseguenza diretta di embarghi
internazionali o della rottura di patti/accordi internazionali, o ancora della
disfunzionalità della vita sociale che provoca tensioni nell’opinione pubblica e
un sensibile aumento della criminalità.
Le “nuove guerre” escono dagli schemi della
guerra convenzionale e assumendo caratteristiche inedite.
La guerra globalizzata: si caratterizza per un crescente fenomeno di
privatizzazione degli eserciti e per una economia di finanziamento basata su
reti transnazionali. Una chiave di lettura plausibile interpreta la guerra
globalizzata quale risultato del superamento della distinzione tra rivoluzione e
guerra, ovvero tra conflitti interni tra massa ed élite e conflitti
internazionali. Oggi infatti, le élites non sono altro che le classi beneficiate
dall’ordine economico mondiale, a scapito della maggioranza della popolazione
mondiale. Questa tendenza interpretativa sembra, tra l’altro, rispecchiare la
teoria maoista del superamento della lotta di classe delle barriere nazionali:
si tratta, questa, di un’ideologia che tanta parte ha giocato nelle rivoluzioni
che hanno accompagnato la lotta armata anticoloniale.
La guerra informale: si è verificato un progressivo crollo della legittimità del
conflitto armato. Esso consegue soprattutto dalla condivisione delle strategie
dell’economia di guerra fra ribelli e stato, che si gioca oggi sul controllo
delle aree ricche di risorse naturali e sull’intreccio dei circuiti del
commercio parallelo o illegale con relazioni politiche, statali, interregionali
ed internazionali (si pensi alla guerra in Angola). Questi aspetti sono parte
del più ampio fenomeno conosciuto ormai col nome di criminalizzazione dello
stato.
Costruite sul dissolvimento dell’economia politica formale a tutto vantaggio di quella informale, le “nuove guerre” si alimentano dunque grazie alla rete di traffici illegali che ne diventano canale e, a loro volta, focolaio. Ma laddove maggiore è la destabilizzazione, non solo gli attori si moltiplicano: spesso anche le organizzazioni internazionali governative e le organizzazioni non governative, presenti per soccorrere la popolazione civile, si trovano coinvolte in quelle dinamiche. Tra i numerosi studi, quelli recenti di M. Duffield sull’esperienza delle organizzazioni umanitarie in Sudan hanno dimostrato ampiamente che nuove risorse, attratte dalla situazione di guerra – e non ultimi gli aiuti internazionali – diventano un movente valido per un’escalation militare, sia per i governi che per i ribelli. La fame, non di rado, viene “indotta” a questo scopo. Oggi soltanto un invasivo intervento di pacificazione dall’esterno sembra poter arginare la gravità di una situazione di guerra maturata con le condizioni appena esposte. Quest’ultima, lasciata degenerare, si può aggravare ulteriormente con il dramma dei rifugiati, una delle conseguenze belliche che più pesantemente ha caratterizzato il XX secolo. Ma la decisione di quando tale intervento sia opportuno, e a quali condizioni, è palesemente ancora appannaggio del cosiddetto “Nord” del mondo.
In modo crescente, i dibattiti attuali si
occupano delle guerre in prospettiva etica. Uno dei concetti di rilievo emersi
da tali dibattiti, in tema di liceità della guerra, è quello di guerra giusta,
conosciuto più spesso nelle terminologie latina ed inglese di bellum iustum o
just war. Tale concetto - introdotto dal filosofo Tommaso d’Aquino (1225-1274) -
ammette tre condizioni a giustificazione del ricorso alla guerra:
che sia mossa da una legittima autorità costituita;
che sia stata scatenata da giusto motivo;
che suo fine sia l’intento di estirpare la causa del male.
Oggi si assiste ad un’apertura sempre maggiore
dell’accezione di guerra giusta, ispirata a principi di etica universale:
il riconoscimento di legittimità alle guerra di liberazione;
il crescente ruolo del consenso internazionale, garantito dall’introduzione di
meccanismi quali le Organizzazioni internazionali sovra-nazionali (ONU e
relative agenzie, NATO, OUA etc.). Le organizzazioni internazionali benché
indebolite dopo la seconda guerra Guerra del Golfo unilateralmente volula dagli
Stati Uniti hanno comunque un loro ruolo e vi è un mutato atteggiamento del
diritto nei confronti della guerra (jus contra bellum);
l’aumentato ricorso a commissioni per l’accertamento della verità e per la
riconciliazione sul fronte interno dei singoli stati belligeranti, nel caso di
guerre civili;
l’impiego di eserciti internazionali che, tramite la dissuasione, tra
“intervento umanitario” ed “intervento autoritativo” , impongono uno stato di
pace;
l’evoluzione delle tattiche di guerra odierne e il progresso tecnologico in
fatto di armamenti.
Da molto tempo la guerra è oggetto di studio, ma
solo da poco tempo gli scienziati sociali se ne occupano sistematicamente per
rendere il fenomeno "conoscibile". Sono state molte le definizioni del concetto
di guerra, fra le quali, le più note si ispirano al diritto. Per esempio, gli
internazionalisti hanno ricercato i criteri in base ai quali è possibile
distinguere lo stato di guerra da quello di pace, per poter applicare poi le
norme del diritto bellico. Dal punto di vista sostanziale, Q. Wright definisce
la guerra come un violento "contatto di entità distinte, ma simili". Ovviamente
tale definizione è sottoponibile a due critiche: per prima cosa non descrive
esaurientemente il concetto di guerra; inoltre non tutto ciò che comprende è
catalogabile come guerra. Successivamente si è insistito molto sul fatto che la
guerra si realizza mediante la forza armata; questo ha ridotto i casi
configurabili come guerra, ma è anche vero che esistono guerre economiche,
psicologiche e di altro tipo. Tuttavia le norme del diritto bellico sono
applicabili soltanto al fenomeno di guerra inteso come scontro armato. Tutto ciò
ci spinge a dire che il confine tra guerra e pace è molto vago: di ciò si sono
resi conto gli scrittori e gli scienziati che si sono occupati di tale
argomento. Così Von Clausewitz ha sostenuto che la guerra è la continuazione
della politica con altri mezzi. Essa è caratterizzata da tre tendenze:
VIOLENZA (cieco istinto),
GIOCO DELLE PROBABILITA' (libera attività dell'animo),
NATURA subordinata dello strumento politico (pura e semplice ragione).
La guerra è quindi certamente violenza ma, avendo
un esito spesso imprevedibile, conclude Von Clausewitz, è calcolo razionale.
Altri ancora hanno individuato la sostanza della guerra nel grado di ostilità
psicologica che la caratterizza. Così, per Hobbes, la guerra non consiste
soltanto nello scontro, ma anche nella cosciente disposizione dell'uomo ad essa
(l'uomo è malvagio ed egoista per natura). Per Boutoul sono tre i caratteri
distintivi della guerra:
è un fenomeno collettivo,
è lotta armata,
ha carattere giuridico.
I criteri in base ai quali il concetto di guerra può essere scomposto sono molti. Ad esempio, con riferimento ai gruppi di lotta, si parla di guerra internazionale se condotta fra più stati, interna o civile se condotta fra cittadini di uno stesso stato, coloniale se i gruppi contendenti sono popoli di civiltà diverse, una delle quali è considerata inferiore all'altra. Per quanto riguarda l'intenzione o la psicologia, la guerra si divide in offensiva, difensiva, preventiva, il cui significato è ricavabile dall'analisi dei termini stessi. Inoltre, con riferimento alle armi utilizzate, si parla di guerre convenzionali o nucleari. Infine, seguendo le finalità perseguite la guerra si divide in dinastica, di conquista, di liberazione, di religione, di rivoluzione, di difesa; generalizzando si possono formare due grandi categorie: guerra limitata oppure totale. Una particolare considerazione merita la guerra come strumento politico. La politica, definita come "intelligenza dello stato personificato", si avvale di due strumenti: la diplomazia e la guerra. Ma se i mezzi sono differenti, unico è il disegno che guida all'azione. La diplomazia si ritira allorché i suoi obbiettivi sono raggiungibili solo attraverso lo scontro armato, pronta a far sentire nuovamente il suo peso non appena ciò sia considerato possibile. Il fine, insomma non dovrebbe mai essere l'annullamento totale del contendente, ma la modifica di certe sue motivazioni.
Lo studio accurato di un gran numero di guerre ha portato a concludere che le cause dei conflitti sono raggruppabili generalmente in cinque categorie:
cause ideologiche,
cause economiche,
cause psicologiche,
cause politiche,
cause giuridiche.
Inoltre si possono riconoscere tre distinti livelli di indagine: il livello individuale, quello di gruppo, e quello di un sistema di gruppi (internazionale). A livello individuale si riscontrano le motivazioni coscienti e quelle inconsce. Per quanto riguarda le prime, è sufficiente affermare che le guerre presuppongono sempre un'organizzazione; la decisione di intraprendere una guerra precede di molto lo scoppio delle ostilità. In riferimento alle seconde, invece, sono state compiute delle ricerche in campo psicoanalitico, che ipotizzano l'esistenza di una tendenza all'aggressività innata e naturale nell'uomo. Alcuni altri filosofi pensano che la guerra possa derivare da un fattore ludico: essi affermano che nelle popolazioni primitive la guerra era vissuta come un mito misterioso, rappresentava l'eterno destino della vita e della morte. In questo senso la guerra si avvicinava alla cosiddetta follia, o addirittura al suicidio, essendo tutte forme di violenza in cui si manifesta l'irrazionale, che spesso è identificato con il sacro e contrapposto alla tranquillità del profano. A livello di gruppo (stato), devono essere presi in considerazione sub-sistemi quali quello governativo, burocratico, legislativo, economico, i gruppi di pressione e sicuramente la natura stessa dello stato (caratteri nazionali, culturali, geografici, etc.). Per quanto riguarda il terzo livello (sistema di gruppi), le analisi ipotizzano che la politica estera degli stati venga influenzata maggiormente dalle situazioni esterne. Ciò viene dimostrato ricorrendo al cosiddetto principio di omeostasi, in base al quale ogni sistema ha la tendenza all'autoconservazione; la guerra viene quindi spiegata in termini di mantenimento dell'equilibrio (balance of power).
Alcuni filosofi dell'antichità hanno riconosciuto alla guerra un valore cosmico, una funzione dominante nell'economia dell'universo. Così fece Eraclito che chiamò la guerra "madre e regina di tutte le cose". E così pure Empedocle affermò che accanto all'amicizia (o amore) come forza che unisce gli elementi costitutivi del mondo ci sono l'odio e la discordia che tendono a disunirli. Altri filosofi, come Hobbes, hanno affermato che lo stato di guerra è lo stato naturale dell'umanità, nel senso che è quello al quale essa sarebbe ridotta senza le regole del diritto o dal quale cerca di uscire mediante queste regole. Filosofo sostenitore della guerra per eccellenza è Hegel, che considerò il conflitto in generale come una specie di "giudizio di Dio", del quale la Provvidenza si serve per far trionfare l’incarnazione migliore dello Spirito del mondo. Egli afferma infatti: "Come il vento preserva il mare dalla putrefazione nella quale lo ridurrebbe una quiete durevole, così vi ridurrebbe i popoli una pace durevole, anzi perpetua". Dall’altro lato ritiene che, nel piano provvidenziale della storia, un popolo succeda ad un altro nell’incarnare e manifestare lo Spirito del mondo, dominando, in nome di questa superiorità tutti gli altri popoli. La guerra può essere un episodio di questo avvicendamento, di questo giudizio di Dio pronunciato dallo Spirito. "Di solito", dice Hegel, "è collegata con ciò una forza esterna che con violenza spossessa il popolo perdente dalla propria posizione di dominio e fa sì che cessi di essere il primo. Questa forza esteriore appartiene però soltanto al fenomeno: non esiste forza interna o esterna che possa distruggere lo Spirito del popolo, se questo non è già in sé estinto". Queste affermazioni equivalgono alla giustificazione di qualsiasi guerra vittoriosa, che, come tale rientrerebbe nel piano della Ragione. Esse costituiscono una mostruosità filosofica, alla quale, comunque si possono contrapporre le opere di tutti i filosofi che si sono occupati dello studio della pace intesa come l’unica situazione in cui l’uomo può essere felice.
Gli eserciti sono organi dello Stato, suddivisi
secondo i differenti corpi, quali entità collettive individuabili, organizzate e
riconosciute come legittimi strumenti di guerra. Essi rispondono ai rispettivi
governi nella difesa degli obiettivi perseguiti in tempo di pace e in tempo di
guerra:
difesa del territorio nazionale,
difesa dei cittadini,
difesa degli interessi e degli obiettivi politici internazionali condivisi e
sottoscritti dal Governo, tanto in forme di alleanze internazionali che di
trattati bi- e multi-laterali. In tal senso, le forze multinazionali di pace,
rientrano nel quadro delle forze armate legittime, in quanto trovano legittimità
negli accordi multi-laterali e nelle Associazioni riconosciute fra Stati.
In passato, in caso di conflitto, a norma del
diritto internazionale e delle convenzioni siglate fra gli stati in materia (in
primis, le Convenzioni di Ginevra degli anni 1864, 1868, 1906, 1929 e 1949),
solo gli eserciti regolari erano riconosciuti quali titolari dei diritti e dei
privilegi generalmente accordati ai belligeranti. Oggi, come vedremo, si è
propensi ad accogliere eccezioni. 4. Forze armate nei Paesi non-Occidentali. La
tradizione militare nella maggior parte dei Paesi non-Occidentali ha radici nel
periodo coloniale. In taluni casi, la tradizione militare di guerriglia,
coltivata per necessità da alcune comunità locali è stata opportunamente
sfruttata con la costituzione di corpi armati specializzati in seno alle truppe
coloniali, di cui esistono molti esempi:
i tirailleurs senegalesi, parte integrante dell’esercito francese;
i Gurkha (genti Rajput insediate in Nepal) ampiamente impiegati dall’esercito
britannico;
il Battaglione 31 dei San (boscimani) Xu, impiegati dalle forze armate del
Sudafrica (SADF) e che ha affiancato il Koevoet in tante azioni contro l’Angola
e le basi SWAPO;
i Kamajor, uomini di lingua mande della Sierra Leone, reclutati dalla Executive
outcomes, una compagnia di sicurezza privata sudafricana che, per incarico del
governo della Sierra Leone, ne ha fatto la guardia presidenziale.
Ma, quelle appena esposte, sono pur sempre
eccezioni: per lo più, le amministrazioni coloniali hanno scelto di attingere
alle regioni meno avvantaggiate dei loro territori, per la formazione dei civil
servants e dei quadri militari. Infatti, seppure le aree avvantaggiate
disponessero di forze guerriere forti di una notevole tradizione di caccia e
difesa, si è fatto presto evidente come il potere coloniale non se ne potesse
servire in modo diretto – anzi, se ne dovesse ben guardare. Ciò fu compiuto
assicurando appannaggi e ruoli nelle amministrazioni coloniali alle gerarchie
tradizionali che avevano il controllo di queste forze, al fine di
neutralizzarle. Diverse sono le conseguenze prodotte da questo mancato
inquadramento negli eserciti nazionali delle forze guerriere tradizionali:
un ulteriore elemento di sconvolgimento nelle strutture di potere pre-coloniali,
che è sopravvissuto ai processi di decolonizzazione e ha provocato un’ulteriore
polarizzazione dei conflitti all’interno delle stesse nazioni. Tali conflitti
hanno assunto spesso caratteristiche etniciste;
per favorire la formazione di quadri militari e per le forniture di armi, in
periodo post-coloniale sono stati conservati stretti rapporti preferenziali
(vedi neocolonialismo) con le ex-potenze coloniali. Tali rapporti si sono spesso
tramutati in un intervento e un sostegno militare, palese o occulto, comunque
determinante in tempo di crisi;
determinanti sono stati i nuovi rapporti internazionali istituiti dalle
ex-colonie nel corso della guerra fredda, con riferimento ai poli (e alla
relativa sfera di influenza) americano, russo, dell’Europa dell’Est e cinese.
Ciò, naturalmente, a seconda degli orientamenti prescelti dai singoli Paesi o
dell’adesione al movimento dei Paesi non-allineati.
Nel corso dei conflitti seguiti alla Guerra
fredda, si è assistito, da parte di molti soggetti di diritto della comunità
internazionale, alla concessione di sostegno materiale a movimenti di
liberazione nazionale attivi in Africa, Asia ed America Latina. Con ciò, di
conseguenza, si è realizzato un progressivo ampliamento del concetto di
legittimità: esso oggi si fonda più sul diritto di autodeterminazione dei popoli
che sulla sovranità territoriale. Infatti, nonostante quest’ultima sia un
elemento che qualifica il soggetto internazionale, in questo caso assume
eccezionalmente un ruolo di secondo piano, ridotto per lo più ad una mera
aspirazione del movimento che agisce in rappresentanza di un popolo. Durante le
Conferenze Diplomatiche di Ginevra sul Diritto Internazionale applicabile ai
conflitti (1974 e 1977), grazie alle mozioni di alcuni Paesi socialisti e alcuni
tra i Paesi meno avanzati, si arrivò alla redazione di due Protocolli assai
importanti, che sancivano le seguenti risoluzioni:
la lotta da parte di movimenti di liberazione in conflitto con Stati coloniali,
razzisti o occupanti era riconosciuta quale conflitto armato internazionale;
nell’ambito di un conflitto interno, il controllo effettivo su una certa
porzione del territorio dello Stato da parte di guerriglieri insorti doveva
essere valutato come una condizione necessaria alla loro legittimazione come
soggetti del diritto internazionale.
Su queste basi, anche i movimenti di liberazione nazionale impegnati in lotte armate e i gruppi organizzati ed armati di insorti possono venire considerati alla stregua di eserciti. Le riserve che furono sollevate in occasione della discussione relativa al secondo protocollo, si rivelano oggi attualissime, a un semplice raffronto dell’epoca in cui tale decisione fu adottata (anni ’70) ed il presente. Oggi infatti, dietro a fronti rivoluzionari armati, si nascondono spesso organizzazioni criminali che prendono possesso di un determinato territorio onde assicurarsi una base sicura per i propri traffici. Spesso i guerriglieri si procurano armi con mezzi illegali e, non di rado, esercitano gravi violazioni dei diritti umani, disseminando terrore nei territori conquistati ed accanendosi sulla popolazione civile. Nel far ciò, adottano una strategia illegale ed esecrabile, che fa uso anche del terrorismo, seppure atta – e questa è la contraddizione – al perseguimento degli obiettivi di una “guerra giusta”, riconosciuti come legittimi.
In tutto ciò, non è raro che in taluni conflitti vengano reclutati con la forza un gran numero di bambini, come schiavi e “strumenti di guerra”, anche in supporto agli eserciti regolari. La piaga dei bambini soldato, ampiamente sfruttati soprattutto in Uganda, Angola, Sierra Leone e Filippine, viene oggi combattuta dalla Coalition to Stop the Use of Child Soldiers . Secondo gli ultimi dati di questa organizzazione, sono stati reclutati almeno 300.000 combattenti al di sotto dei 18 anni di età (120.000 dei quali in Africa). Inoltre, a tutt’oggi, pur rimanendo in vigore la Convenzione delle Nazioni Unite dei Diritti del Bambino (1989), che fissa a 15 l’età minima per il reclutamento, sono scarsissimi i risultati ottenuti dalla ratifica di documenti quali l’African Charter on the Rights and Welfare of the Child (1992) o la Maputo-Declaration siglata in occasione dell’African Conference on the Use of Children as Soldiers (1999). Spesso, questi accordi non vengono sottoscritti proprio dalle nazioni che fanno largo uso di bambini-soldato e, come emerge, ad esempio, dalle prove che si stanno raccogliendo riguardo i contingenti multinazionali impegnati nella Repubblica Democratica del Congo, sono disattesi dagli stessi firmatari.
Una delle caratteristiche delle “nuove guerre” consiste nella loro privatizzazione, che spesso prevede l’assunzione di ben equipaggiati contingenti di mercenari. Si tratta di professionisti della guerra, spesso organizzati in compagnie di sicurezza privata: un esempio già citato sono i Gurkha del colonnello MacKenzie, ucciso in Sierra Leone, famosa è anche la compagnia sudafricana Executive outcomes, diretta da E. Barlow, istituita dopo lo smantellamento delle forze speciali sudafricane del Koevoet e fornitrice di mercenari ai governi di Angola e Sierra Leone. Ma oggi i mercenari possono essere anche inquadrati in grosse compagnie internazionali, come la Sandline international, diretta a Londra da T. Spicer. Si tratta di società dotate di enormi disponibilità di mezzi, specializzate nel rifornire armamenti, mercenari ed addestramento militare ai loro clienti, spesso in cambio di sostanziose compartecipazioni – palesi o occulte – nello sfruttamento di materie prime. Altrettanto spesso queste organizzazioni paramilitari riescono a rompere embarghi internazionali e a imbastire enormi traffici illegali. Riconosciute a livello internazionale, i loro nomi sono emersi in settori cruciali di opposizione a gruppi ribelli o nel ripristino della legittimità di governi in esilio, dall’Africa all’Asia, dall’America Latina ai Balcani. Appannaggio esclusivo delle guerre africane nel periodo della Guerra fredda, l’ingaggio di queste società si è diffuso a macchia d’olio in ogni dove. Di quando in quando ha gravi scandali: l’ingaggio della Sandline nel ‘97 da parte del governo papua (Nuova Guinea), ad esempio, ha irritato l'esercito di questo Stato, provocando un golpe; gli accadimenti in Sierra Leone, poi, col diretto coinvolgimento della Gran Bretagna, hanno portato alla ribalta dell’attenzione mondiale il trend delle nuove guerre. Sempre più spesso le potenze del globo riservano ai propri eserciti azioni di peacemaking, dall’alto profilo morale, mentre non disdegnano di relegare a quelle agenzie il lavoro sporco. Recenti articoli sulla stampa internazionale, poi, denunciano la presenza di tali compagnie addirittura nelle riunioni pubbliche delle Nazioni Unite, in qualità di osservatrici, e denunciano connivenze con appaltatori privati ed agenzie governative di vari paesi.
La guerra rivoluzionaria costituisce la fase attiva all’interno una rivoluzione politica. Essa si basa generalmente su tecniche di guerriglia, ovvero sull’impiego di unità combattenti mobili che basano la loro strategia sull’effetto sorpresa e sulla rapidità di spostamento, anziché sull’accentramento in luoghi strategici. Come accennato a proposito delle “nuove guerre”, nelle strategie di guerriglia (che ne sono divenute un esempio emblematico) si sono manifestati profondi cambiamenti negli ultimi anni. In effetti, fino a poco tempo fa, nel nome della guerra del popolo, le unità combattenti si spargevano sul territorio che intendevano controllare, mirando al sostegno della popolazione per attrarre consenso all’ideologia rivoluzionaria e garantirsi approvvigionamenti e forniture militari tramite il contrabbando, nonché il ricambio in seno alle unità di guerriglia stesse. Le recenti esperienze in Sierra Leone o in Angola hanno però dimostrato come, al contrario, i cosiddetti fronti rivoluzionari, anziché instaurare un rapporto di collaborazione con la popolazione rurale, adottino piuttosto un regime del terrore, depredando città e villaggi, requisendo le risorse alla fonte e reclutando schiavi (soprattutto bambini) che in un secondo tempo divengono guerriglieri. Bisogna infine aggiungere che la forma di combattimento della guerriglia viene adottata oggi anche da unità combattenti regolari, anche impiegate per operazioni di peacekeeping.
I mezzi materiali utili alla guerra possono
essere divisi in due grandi categorie:
le forze armate, suddivise secondo i differenti corpi;
l’industria bellica e gli armamenti.
Il rafforzarsi dei rapporti tra Paesi non allineati con l’Europa dell’est (incentivato dal crollo del muro di Berlino) la fine della guerra fredda e del bipolarismo e infine la disfatta dell’Impero sovietico - con la conseguente frammentazione e la perdita di controllo sul suo arsenale bellico, svenduto a bassissimo costo e, spesso, su basi illegali – ha portato a una distribuzione incontrollata degli armamenti convenzionali e nucleari. Questi si sono resi accessibili ad un numero di Paesi sempre maggiore, e, anche grazie ad autonome leggi di mercato, ad attori non riconosciuti dal diritto internazionale e posti al di fuori di ogni controllo e regolamentazione. Tale proliferazione ha causato una trasformazione radicale nella guerra convenzionale, un tempo controllabile, dal momento che la sua eventualità era legata alla responsabilità di attori ben definiti nello scacchiere internazionale e soggiaceva alle regole della dissuasione. Oggi si è invece aperto l’inquietante capitolo del terrorismo nucleare. Nell’arco di un processo evolutivo di carattere più scientifico che strategico, si sono sviluppate armi chimiche, biologiche e batteriologiche, ordigni nucleari e vettori relativi, e la cosiddetta guerra tecnologica (pulita o intelligente) che consiste in un’integrazione di elementi digitali e ICT (Information, communication technologies) della guerra convenzionale, chimica e/o nucleare. Questa rivoluzione negli armamenti, insomma, ha trasformato la guerra in ciascuna delle sue dimensioni tattiche - terrestre, navale, ed aerea – e prosegue anche ai giorni nostri.
Rientrano nella categoria delle armi chimiche i gas nervini, agenti vescicanti, asfissianti o inabilitanti, nonché tossine di vario tipo. Tali armi possono essere disperse nell’aria con l’aiuto di diversi vettori (proiettili, missili o bombe). Sono usate per lo più per colpire il nemico, ma vi sono eccezioni: i gas defolianti, ad esempio, vaporizzati da aerei, servono a colpire la vegetazione in cui il nemico si nasconde per spingerlo allo scoperto (tipico è il caso del napalm, usato largamente dagli USA in Vietnam. Anche l’uso di certi materiali per la confezione di armi convenzionali o nucleari, atti a perfezionarne l’effetto bellico, provocano conseguenze non meno gravi di quelle innescate da molte armi chimiche. Si pensi al recente scandalo dell’uranio impoverito (depleted uranium), utilizzato per il miglioramento della capacità perforante dei missili, che sin dalla Guerra del Golfo ha investito la Nato. Proprio questa vicenda lascia emergere in tutta la sua gravità l’eterno problema dell’egemonia in seno alle alleanze internazionali, della gerarchizzazione del grado di responsabilità nei confronti delle vittime, dalla tutela dei soldati, dell’atteggiamento di scarsa o nulla responsabilità tenuto dalle autorità militari nei confronti dei cooperanti, così come dei danni perpetrati alle terre ed alle popolazioni colpite.
Le armi biologiche e batteriologiche sono composte da batteri, rickettsie, virus e funghi. La guerra combattuta con armi di questo tipo ha una lunga storia: essa discende dalla cosiddetta “guerra di germe” medievale, che consisteva nell’intenzionale contaminazione dell’ambiente occupato dal nemico con carcasse di animali. Guerra chimica, biologica e batteriologica, nella misura in cui sono discipline di tattica militare applicata, hanno conosciuto una sperimentazione sull’uomo senza limiti. In particolare, sono spesso serviti da cavie paesi e popoli ritenuti “inferiori”, com’è stato il caso delle sperimentazioni di armi batteriologiche di distruzione di massa dell’Unità giapponese 731, nella Cina degli anni ’40. Ma non mancano, a partire dalla guerra fredda, esempi di accanimento contro l’ambiente e talvolta contro le città situate nel territorio delle stesse Potenze che mettevano a punto agenti epidemici ed agenti biologici surrogati, o che intendevano testare il grado di vulnerabilità e i tempi di reazione ad eventuali attacchi nemici. A tali sperimentazioni si affiancano numerosi “incidenti di percorso”, quali ad esempio le contaminazioni di volontari, di cui solo di recente si è venuti a conoscenza e, con ogni probabilità, in modo parziale. Le conseguenze di questi gravi fatti sono a tutt’oggi inconoscibili ed incontrollabili, a causa della natura volatile degli agenti impiegati. Tali incidenti, ovunque siano stati scoperti e denunciati, hanno rivelato anche una volontà d’occultamento delle prove, che ha accomunato nell’omertà la maggior parte delle Nazioni, alleate o contrapposte che fossero. Non giova evidentemente a nessuna di esse scagliare la prima pietra.
Attualmente le potenze nucleari mondiali sono otto: Stati Uniti, Comunità degli Stati Indipendenti, Cina, Francia, Inghilterra, India, Pakistan ed Israele. Con la distensione e la fine della cosiddetta “logica dei blocchi”, la proliferazione di materiale nucleare ha assunto un ruolo non marginale nella cosiddetta anarchia del sistema internazionale. Lo scenario internazionale è attualmente turbato da un pericoloso confronto fra forze originate dalla progressiva polverizzazione dell’assetto globale in associazioni regionali, in ciascuna delle quali si identificano chiare egemonie. E’ dagli anni ’60, ad esempio, che si è aperta in Asia la concorrenza nucleare. Anche con l’intento di tutelarsi dagli attacchi della Cina – che nel ’64 entrò nel novero delle potenze nucleari -, l’India, in contrasto col Trattato di non-proliferazione nucleare del ’68 (cui non aderì) e col concorso di Canadesi e Americani, nel ’74 fece il suo primo esperimento nucleare. Seguì il Pakistan di Bhutto e Zia, decisi a costruire quella che i paesi dell’area chiamarono Islam bomb: essa è stata confezionata di recente, praticamente in condizioni d’autarchia. In seguito, il Pakistan ha rifiutato di siglare l’ultimo dei trattati impropriamente definiti “di disarmo” (il Comprehensive test ban treaty del 1996), che per la verità consisteva, in pratica, nella ratifica dello status quo a livello globale.
A scapito di una corsa all’accaparramento di grandi quantità di armi, sembra farsi largo nel Primo mondo l’attitudine ad acquisire limitate quantità di armi qualitativamente superiori. La tendenza in atto nell’Occidente è quella di rendere possibili guerre sempre più tecnologiche, che garantiscano un abbassamento costante della percentuale di vittime civili. Eppure quest’ultime, in complesso, hanno raggiunto la percentuale dell’80% rispetto a quelle militari: ciò a causa delle strategie belliche attuate nei paesi meno avanzati. Sono questi i clienti privilegiati dei produttori delle armi leggere (armi individuali, corte, lunghe, da combattimento, mine, mortai, etc.), mezzi destinati più all’eccidio che alla distruzione di obiettivi strategici. Scarsi controlli e mercato nero permettono di riciclare questo tipo di armamenti di conflitto in conflitto. La proliferazione delle armi convenzionali le rende pericolose protagoniste in ogni campo di battaglia. È un fatto che i movimenti in competizione per il potere, anziché cercare il sostegno popolare, finiscano col privilegiare la razzia di mezzi che potranno risultare utili al sostentamento dell’attività bellica. Materie prime (diamanti, petrolio ecc.), oppure materiali elaborati e di consumo (spesso aiuti internazionali), sono spesso scambiati con armi leggere ed altre risorse, attraverso traffici transnazionali e illegali. L'eccessiva disponibilità di armi leggere e il loro basso costo spesso inducono le parti in guerra a non deporre le armi e a proseguire nell'opzione violenta, piuttosto che sobbarcarsi i necessari sacrifici che derivano da un accordo di pace. Ciò è avvenuto, per fare qualche esempio, in Ruanda, nella Repubblica democratica del Congo, nel Congo-Brazzaville, in Sierra Leone ed in Angola. Quasi tutte le missioni internazionali di pace in Africa sono fallite a causa della proliferazione delle armi leggere e non mancano casi in cui soldati delle forze multinazionali di pace hanno subìto il fuoco di armi vendute dai loro stessi paesi di provenienza. Ciò è naturalmente capitato anche a soldati italiani, visto che l’Italia è uno dei maggiori produttori di armi. Pur essendo classificata sotto la voce “armi civili”, la dichiarata esportazione di fucili e pistole “da caccia e da tiro sportivo”, si svolge, oltre che verso gli Stati Uniti, anche verso Algeria, Perù, Tailandia e Slovenia, per un giro d’affari di centinaia di miliardi.
I cosiddetti “interventi autoritativi” in territori extra-europei, in parte ascrivibili ad alleanze di stampo neocoloniale (Guerra del Golfo, Haiti, Comore, Sierra Leone etc. neocolonialismo), si sono caratterizzati per l’uso dei più sofisticati armamenti. Queste occasioni belliche hanno messo in evidenza non solo la persistenza, quanto alla proliferazione degli armamenti convenzionali, di legami preferenziali tra quei territori e l’Occidente, ma anche l’insistenza da parte dell’Occidente nello sfruttamento di quei campi di battaglia come occasioni di sperimentazione di nuove combinazioni belliche. La definizione di guerra tecnologica implica una gestione e un controllo a distanza del teatro di guerra, con un minimo coinvolgimento di elementi umani e – a detta dei suoi sostenitori – un “trascurabile margine d’errore”. Essa ha comportato, tra l’altro, una crescente sofisticazione e miniaturizzazione degli a. nucleari. La pericolosità di questi ultimi è oggi aumentata in modo esponenziale, non essendone facilmente controllabile, ormai, il traffico. Lo stadio più avanzato della guerra tecnologica, la cyberwar, è stato esperito dagli Stati Uniti proprio nei teatri di guerra di cui si è detto sopra. Durante la prima Guerra del Golfo, ad esempio, e in seguito ad Haiti, è stato sperimentato e perfezionato il sistema integrato di trasmissione globale GPS (Global Positioning System), che si serve della cosiddetta info-sfera, ovvero dell’apparato satellitare, in perfetta sinergia con mezzi aerei e terrestri. Grazie a questo sistema, dalla centrale di controllo e raccolta dati e con il supporto di mezzi mobili abbastanza distanti dal fulcro della battaglia da poterlo monitorare senza esserne coinvolti, vengono trasmessi dati circa obiettivi e priorità agli elementi a terra (fanteria e carristi) dotati di elmetti integrati. Piloti, capo-carri e altre unità combattenti, grazie al mutuo collegamento elettronico,a microcamere, computer e tecnologia ottica agli infrarossi, possono condividere il teatro di battaglia da ogni prospettiva, anche al buio. L’ulteriore evoluzione della tecnologia digitale integrata negli elmetti permetterà al soldato di sparare senza esporsi. Si tratta, questa, di una tecnologia già esperita con l’uso di chip al silicio su mezzi di terra. Il fine ultimo di tutta questa evoluzione è quello di poter combattere battaglie senza uomini. Tuttavia, ciò che immediatamente si rende evidente quando si parla cyberwar, è che si perdono di vista le vittime. Anche il controllo delle vittime, tuttavia, è affidato all’efficace arma psicologica della cosiddetta info-guerra: ancora ad Haiti, sembra si sia operato anche attraverso la televisione - con la combinazione di gas diffusi nell’aria, sostengono alcuni - per calmare la popolazione.
Oggi si considera psico-arma la combinazione (non
nuova, peraltro, nella storia della guerra) di stimoli psicoattivi - siano essi
la paura, la propaganda o il convincimento di agire in nome di Dio o di poter
sublimare in sé la forza dell’animale clanico - con la distribuzione controllata
di sostanze naturali o sintetiche: lo scopo finale è la stimolazione ed il
mantenimento di uno stato di alterazione delle truppe. Tre sono le categorie in
cui si classificano tali sostanze:
psicolettiche (dall’effetto calmante: oppiacei, analgesici, alcolici,
ansiolitici),
psicoanalettiche (sostanze eccitanti quali cocaina, anfetamine, khat e
antidepressivi),
psicodislettiche (sostanze allucinogene come Lsd, psilocibina o mescalina).
Per guerra fredda si intende una forma di
conflitto basata sulla teoria della dissuasione e della deterrenza. Essa è
imperniata su una modalità psicologica che, peraltro, può essere esperita in
qualsiasi tipo di conflitto, in cui un attore opponga una seria minaccia alla
possibilità della controparte di fare, o non fare, una determinata azione. Si
parla di “guerra dei nervi” quando tale minaccia, pur non sfociando in una
guerra, appaia particolarmente grave o incomba per un lungo periodo.
Sviluppatasi tra il 1949 e gli anni ‘80, la modalità bellica della guerra fredda
ha favorito una psicosi permanente della guerra, associata alla minaccia
nucleare, seguita all’annuncio nel 1949 del possesso della bomba atomica da
parte delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Tale minaccia ha indotto
il cosiddetto “equilibrio del terrore”: URSS e Stati Uniti erano impegnate a
mantenere uno stato di parità tra i rispettivi armamenti nucleari, di modo da
evitare la prima mossa, che peraltro non era ritenuta sufficiente ad inibire una
reazione devastante e definitiva alla controparte. Era questa la teoria politica
della dissuasione termonucleare dell’amministrazione Eisenhower (1953), basata
sulla minaccia di realizzare una rappresaglia massiccia (massive retaliation)
all’eventuale “prima mossa” dell’avversario. La concretezza di tale minaccia
costituiva l’azione preventiva (deterrent) ritenuta sufficiente ad inibire
quella fatidica prima mossa. Storicamente, si usa dividere la guerra fredda in
due periodi:
Nella prima fase (1949-1974), nella scia della teoria della dissuasione, si
crearono le condizioni necessarie alla costruzione dei blocchi, ossia di quella
logica di alleanze, nota col nome di allineamento, che progressivamente permise
alle due superpotenze di giostrare gli equilibri delineatisi alla fine del
secondo conflitto mondiale. Non solo: USA ed URSS approfondirono ulteriormente
la loro influenza - diretta o indiretta, manifesta, ma più spesso occulta -
nelle politiche interne ed estere dei paesi alleati, spingendosi soprattutto nel
controllo degli alleati potenziali, ossia i paesi in fase di decolonizzazione.
Con ciò si originarono i fenomeni d’adesione del bipolarismo e di reazione del
non-allineamento. Le due superpotenze crearono così i rispettivi imperi,
coinvolgendo i paesi dell’est europeo, dell’Asia, dell’Africa e dell’America
Latina, e non ammettendo mutua ingerenza in essi.
Nella seconda fase (1975-1989), consolidatisi i blocchi, le due superpotenze ne
inasprirono la difesa, attraverso strategie di destabilizzazione che, non di
rado, esportarono nei paesi extra-europei i dissidi tra o in seno alle potenze,
per distrarre l’attenzione internazionale dai rispettivi problemi interni. Le
conseguenze politiche e sociali di queste politiche furono incalcolabili sui
fragili equilibri dei paesi coinvolti.
I mezzi impiegati per combattere la guerra fredda
sono stati, dunque, i servizi segreti, la deterrenza nucleare, sul più vasto
fronte internazionale, la guerra di destabilizzazione a sostegno di regimi
repressivi, anche di stampo dittatoriale. Agli interventi bellici diretti sul
fronte asiatico (Corea e Vietnam), si potrebbe affiancare la pesante ingerenza
delle agenzie statunitensi nell’America Latina, ma soprattutto i casi eclatanti
degli interventi occulti nella strategia di destabilizzazione che ha interessato
l’Africa australe. L’apice di questa strategia è stato toccato nella seconda
fase della guerra fredda:
il Sudafrica, appoggiato dagli Stati Uniti, oppose un “cordone sanitario” contro
gli stati indipendenti a maggioranza nera della regione australe.
In risposta, Tanzania, Zambia e Botswana, prima, e Mozambico ed Angola, poi
(dopo l’indipendenza dal Portogallo occorsa nel ’74), si costituirono quali
“Stati della Linea del Fronte”: un fronte comune, appunto, contro i regimi
bianchi di Sudafrica, Rhodesia, Africa del Sud Ovest (poi Namibia), Angola e
Mozambico, per assicurare il potere politico alla maggioranza di colore.
Si può ben dire che negli anni ’70 la Guerra
Fredda aveva fatto dell’Africa il suo campo di battaglia:
Russia e paesi “satelliti” si erano attivati nel Corno d’Africa ed in Africa
australe;
distaccamenti dell’esercito cubano facevano ingresso in Mozambico, Congo,
Tanzania, Sierra Leone, Angola ed Etiopia, in applicazione dell’ideologia
terzomondista di Castro che mirava a colpire i centri economicamente nevralgici
dell’Occidente.
Nel lungo arco di durata della guerra fredda, non sono mancati meccanismi limitativi nel bilanciamento della forza nucleare, a partire dai trattati di non proliferazione. Nel 1971 Stati Uniti ed Unione Sovietica hanno concluso il primo dei cosiddetti Strategic Arms Limitation Talks (SALT), fissando il numero missili balistici intercontinentali (ICBM = Intercontinental Ballistic Missiles), e bloccando, l’anno seguente, lo sviluppo di contromisure rispetto agli ICBM. Altri accordi hanno proibito esperimenti con armi nucleari nelle cosiddette aree neutrali (nell’Antartico, nello spazio o nell’Oceano aperto), ma il caso della sperimentazione francese a Mururoa, nonché il possesso di ordigni atomici da parte di alcuni tra i paesi anche meno tecnologicamente avanzati, ha dimostrato quanto fosse limitata questa serie di accordi che non teneva conto della proliferazione nucleare in altri stati.
Secondo un’accezione strettamente religiosa, il
fondamentalismo propone un ritorno assoluto alla lettera dei sacri testi, quali
che siano, come unico fondamento di ogni critica e rinnovamento. Si distingue
dall’integralismo, che è invece un’aspirazione a risolvere per mezzo della
religione tutti i problemi sociali e politici e a restaurare l’integrità dei
dogmi religiosi. Con il termine “fondamentalismo” si indicano vari elementi
strettamente legati tra loro:
l’accettazione esclusiva e totalizzante, in un individuo o in un gruppo, di
valori religiosi, culturali, etici, sociopolitici.
la contrapposizione dichiarata fra sé e gli altri.
l’accentuazione del senso di incompatibilità tra sé e l’altro.
la disponibilità alla violenza come mezzo per imporre le proprie visioni del
mondo e i propri stili di vita.
I fondamentalismi religiosi non possono certo fornire da soli una risposta alle società in cerca di modernità, ma al razionalismo individualista dell’Occidente e al sottosviluppo del Terzo mondo oppongono un messaggio semplice: la fedeltà alle istituzioni tradizionali come la famiglia, la consolazione spirituale, la promessa di un’altra vita, l’autostima della superiorità morale. Il fondamentalismo islamico è l’insieme dei movimenti fondati su un’interpretazione integralista dell’Islàm, caratterizzata da una stretta adesione al Corano e alla legge islamica. Si è diffuso in reazione ai movimenti di riforma islamica e alla penetrazione dell’influenza occidentale negli Stati arabi. Propugna un ritorno alle origini, riproponendo l’unione tra religione e organizzazione statale. In modo politicamente diverso, ma culturalmente equivalente, si è sviluppato un fondamentalismo cristiano, fautore, tra le altre cose, del controllo religioso sulle scuole pubbliche. I fondamentalisti cristiani accusano, ad esempio, l’Unione europea di essere opera del diavolo. La loro corrente si rivela essere una forza elettorale assai potente negli Usa. Ma ha molto seguito anche in Africa (soprattutto in Zimbabwe) e in Asia, dove ha un forte potere attrattivo sui i poveri. Il fondamentalismo ebraico, di carattere nazional-religioso, ha spesso portato all’esecuzione di omicidi politici. Ha formato la base politica del governo israeliano di Netanyahu. È opinione diffusa che l’ebraismo, come ogni altra cultura religiosa, sia fondamentalista per natura, nel senso originario, che non è necessariamente negativo: una cultura radicata nelle fonti antiche, donde dipende, e cui si rivolge per modellare il presente e il futuro. In India esistono gruppi fondamentalisti induisti in Tamil Nadu, Kerala, Bihar e Uttar Pradesh. Di recente, l’attività di queste formazioni ha assunto decisamente i caratteri di una lotta armata. Il partito che esprime le loro posizioni è il Partito del popolo (Bjp). I fondamentalisti sikh sono arrivati, tra le altre cose, ad assassinare in Canada il direttore del settimanale in punjabi Indo-Canadian Times Tara Singh Hayer, che aveva già subito un altro attentato che lo aveva semiparalizzato. Il giornale è conosciuto per le critiche nei riguardi dei sikh e per il suo impegno nel campo dei diritti umani.
Talora il fondamentalismo religioso ha caratteri spiccatamente nazionalistici. I fondamentalisti algerini, il cui scontro con il governo ha prodotto 100.000 vittime, operano anche nel nord del Niger in collusione con civili e militari nigerini. Il fondamentalismo egiziano ha un’ala dissidente e violenta composta da giovani che praticano il terrore. Il fondamentalismo palestinese può contare su varie carte, di cui non va sottovalutata l’importanza: in primo luogo vanta una classe dirigente popolare a Gaza e una forte influenza in Cisgiordania. Si tratta di una forza politica genuina, dotata di una vera e propria struttura segreta, e i suoi membri sono sempre pronti allo scontro. Il fondamentalismo iraniano è stato a lungo un pericolo in grado di incendiare tutta l’area del Medio Oriente e, per taluni, addirittura di minacciare il mondo. La guerra condotta dall’Occidente contro di esso fu combattuta in prima linea dall’Iraq di Hussein, che invase l’Iran nel 1980. Oggi il regime iraniano sembra evolvere verso una maggiore moderazione interna ed esterna, grazie all’opera riformatrice del presidente Khatami. Non è inutile ricordare che, tra le mille voci di rimpianto in tutto il mondo, in seguito all’assassinio del primo ministro israeliano Rabin ad opera di fondamentalisti ebraici, si fece sentire la voce esultante, oltre che dei fondamentalisti iraniani, di quelli libanesi. L’Uzbekistan, come tutte le altre repubbliche centroasiatiche, teme un Afghanistan controllato dai fondamentalisti pashtun. Giova infine ricordare come si sia prestata negli ultimi anni pochissima attenzione al fenomeno del fondamentalismo slavo.
Numerosi fondamentalismi hanno invece un carattere più segnatamente politico. Ultimamente, i fenomeni più rilevanti sono i seguenti. Spesso dietro la parola «liberale» si cela un vero e proprio pensiero fondamentalista, per il quale tutto ciò che tende a frenare le spinte crude dell’economia capitalista e la passione per l’arricchimento dei più ricchi, non è altro che un attentato contro la libertà, o una cospirazione contro le leggi di mercato, che provvedono a creare la prosperità e diffondere la giustizia. Il fondamentalismo «neoliberale» ritiene di detenere una totale egemonia sul piano culturale, e pensa di convincere che tutto “andrà meglio” nella misura in cui lo Stato limiterà la sua ingerenza. Gli «ultraliberali», con il loro fondamentalismo, giustificarono addirittura la realizzazione dei colpi di stato militari in Cile. Bisogna peraltro ricordare che esiste una cultura di opposizione alla vittoria del credo economico liberale. Essa vive ai margini della società, in settori che sono a loro volta tacciati di fondamentalismo e che proprio per questo non possono influire quanto vorrebbero sullo svolgimento del dibattito politico, pur proponendo interessanti ricette. Uno dei vizi delle formazioni di ispirazione ecologista è la divisione tra pragmatici e fondamentalisti. Questi ultimi, con la diffusione proposte estremiste, spaventano gli elettori: esemplare la proposta di una parlamentare verde tedesca di consentire ai cittadini un solo viaggio aereo ogni cinque anni.
L’intento dei 19 trattati siglati nel nome della non-proliferazione degli armamenti e del disarmo convenzionale e nucleare, vanno ascritti al tentativo di controllare, contenere e razionalizzare un potenziale bellico cui nessuno è disposto a rinunciare, come dimostra la continua incentivazione della liberalizzazione del mercato degli armamenti. A una liberalizzazione e privatizzazione del commercio delle armi corrisponde infatti, da parte dei Governi, un minore controllo sulla produzione, il commercio e sull’eventuale riconversione dell’industria di armi, vettori, meccanismi di puntamento ecc. Tuttavia è innegabile che una consistente fetta dei budget nazionali, un tempo investiti nei programmi di difesa, vengono oggi destinati ad operazioni di pacificazione, e non solo limitatamente al cosiddetto Primo mondo.
Per quanto attiene al disarmo nucleare, la seguente sintesi raccoglie i principali obiettivi e tappe fondamentali di questo lungo processo. Da rilevare l’eliminazione di missili a corta e media gittata in Europa (1987), il bando delle armi nucleari da tutti i campi di battaglia e dalle dotazioni della marina di superficie (1991), la riduzione degli armamenti nucleari a lungo raggio (1991 e 1993) e la fine dei test nucleari (1996). Quest’ultima, peraltro, non è stata sottoscritta da tutte le potenze nucleari. La messa al bando delle armi biologiche e batteriologiche è stata innescata da una prima rinuncia unilaterale da parte del presente americano Nixon (1969), seguita dalla Biological Weapons Convention (1972). Dopo il devastante bilancio dell’uso dei gas durante la Prima guerra mondiale, nel 1925 fu siglato un primo accordo multilaterale di rinuncia all’utilizzo bellico dei gas. Ad esso, 72 anni più tardi, seguì la firma della cosiddetta Chemical Weapons Convention. Anche questo accordo, tuttavia, non sembra aver fermato le sperimentazioni, che spesso sono innescate dal timore della rischio di una possibile guerra chimica. A dispetto della Convenzione, infatti, ogni nazione che disponga di industrie farmaceutiche e chimiche è potenziale produttrice di armi biologiche: non a caso esse vengono definite l’”atomica dei poveri”. E’ proprio nella persuasione che l’associazione di tossine, virus o gas nervini con vettori esplosivi di medio/grande potenziale potrebbe distruggere – grazie alla semplice azione del vento e a costi minimi – buona parte delle forme di vita del pianeta, si è inteso limitare con l’adozione del cosiddetto Missile Technology Control Regime (1983) il trasferimento ai Paesi meno avanzati della tecnologia missilistica. Durante la prima Guerra del Golfo, i soldati americani furono immunizzati contro l’antrace, paventando gli esperimenti irakeni. Ciò dimostra come, anche in un’ottica difensiva e animati da una sostanziale sfiducia nei confronti dell’osservazione dei trattati che mirano al bando delle armi di distruzione di massa, gli stati si sentano legittimati a proseguire nelle ricerche, se non altro per approntare antidoti efficaci.
I dati allarmanti nel settore della proliferazione delle armi leggere esortano a intraprendere azioni di contrasto nei confronti del micro-disarmo. Ciò viene fatto con cautela, ma anche con decisione, attraverso l’utilizzo di strumenti come l’embargo internazionale e azioni diplomatiche in cooperazione fra diversi stati. È evidente che i criteri di valutazione che presiedono a queste azioni sono sempre assai incerti, essendo spesso difficile distinguere tra uso legittimo e illegittimo delle armi e fra movimenti che attraverso pratiche criminali mirano ad obiettivi politici ed altri che mascherano con obiettivi politici i loro intenti criminali. Una direzione intrapresa il 14 novembre 1997 dall'Organizzazione degli stati americani (OSA) ha siglato la cosiddetta Convenzione per la prevenzione e la lotta alla produzione e alla vendita illecita di armi da fuoco, munizioni ed esplosivi. In ciò è stata subito seguita anche dall’Africa occidentale: Mali in testa, otto Stati hanno proclamato, in quello stesso anno, una moratoria su importazione, esportazione e fabbricazione di armi leggere. Tale politica mira inoltre ad incentivare il controllo delle frontiere, nonché la formazione delle forze di sicurezza in un quadro di cooperazione internazionale ispirato ad un comune Programma di coordinamento e di assistenza per la sicurezza e lo sviluppo (PCASES), e sostenuto dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (PNUS). Tuttavia, l’intento di coinvolgere l’intera OUA in questa meritoria campagna è fallito. Non mancano politiche regionali in materia: ad esempio, nell’ambito del SADC (Southern Africa Development Community), il Sudafrica, per controllare in modo più rigoroso il traffico d’armi di cui è consapevolmente al centro, ha di recente concluso con il Mozambico e lo Swaziland. Quanto al programma di riscatto delle armi (pay back), incoraggiato dall’ONU, esso è apparentemente fallito nella maggior parte degli Stati che l’avevano accolto come parte integrante degli accordi di pace. Va osservato che ciò era stato fatto in mancanza di una regolamentazione internazionale che impedisse la proliferazione delle armi convenzionali, sul modello di quello in vigore per le armi nucleari. Per il momento, si dispone soltanto di un Codice di condotta internazionale sul commercio degli armamenti. Sempre nel quadro delle iniziative dell’ONU, si è giunti ad una proposta di Convenzione sulla prevenzione dell'uso indiscriminato e illegale di armi leggere: essa prevede criteri circa l'esportazione, la raccolta e la distruzione delle armi in eccedenza, mentre una iniziativa analoga è stata l’adozione dall’Unione Europea, nel giugno 1997, del Programma per la prevenzione e la lotta al traffico illecito di armi convenzionali. Difficoltà notevoli sul piano locale incontrano, invece, le proposte relative al mantenimento di un Registro internazionale dei trasferimenti delle armi convenzionali o di registri delle armi leggere da gestirsi in ambito regionale. Quanto al primo, ne esiste già uno gestito dalla Nazioni Unite, ma è assai poco efficace, poiché limita il controllo ai marchi di armi più conosciuti ed ai calibri maggiori. Va osservato inoltre che non è troppo diffusa una prassi di marchiatura delle armi al fine di stabilirne la provenienza. La campagna anti-mine ha portato centoventi paesi a sottoscrivere a Ottawa, nel dicembre 1997, una convenzione sul divieto totale delle mine antiuomo. L’iniziativa è stata coronata dall’ottenimento del Premio Nobel per la pace e fa ben sperare che un analogo movimento possa sbocciare nei confronti del traffico incontrollato delle armi leggere.
Con il termine “terrorismo” si intende generalmente l’insieme degli atti di violenza politica, compiuti intenzionalmente da individui o gruppi in rappresentanza di o su commissione di movimenti clandestini organizzati, in realizzazione di un piano di sovvertimento dell’ordine politico e sociale gestito da un determinato governo. Diversi sono i tipi di terrorismo, a seconda degli autori e dei moventi, ma, per la maggior parte, quasi tutte le manifestazioni potrebbero essere definite come atti illegittimi di guerra. Circa le interpretazioni del termine, diversa era la sua valutazione quando fu usato per la prima volta, alla fine del Settecento: vi si identificavano, infatti, gli abusi del potere rivoluzionario francese, ritenuti da Robespierre “giustizia pronta, severa, inflessibile” da esercitare contro i “nemici” della Repubblica. Anche la differenza tra terrorismo, anarchia e populismo costituisce un tema controverso, ma, di fatto, si confondono ancora spesso le categorie. Tanto anarchismo che populismo (vedi ideologia) si sono serviti del terrorismo (metodo illecito di lotta). Spesso, si sono tacciati per terroristici assassinii perpetrati da singoli che hanno attaccato un’istituzione (p. es. regicidio) o a difesa di gruppi militanti in condizione di clandestinità e non in ottemperanza ad un piano politico destabilizzante. Obiettivo dell’anarchia è la distruzione dello Stato; il terrorismo appare più spesso, invece, un modo per richiamare l’attenzione dello Stato e dell’opinione pubblica sulle azioni (o sulle mancate azioni) di uno Stato. Ciò significa che spesso il terrorismo è un modo, seppur violento, di interloquire con un ordine costituito e riconosciuto. Progetti di più ampio respiro possiamo leggere nel terrorismo fondamentalista islamico contro obiettivi occidentali, che, al di là delle contromisure in opposizione a specifici atti dell’Occidente, ha come fine ultimo quello di indurre l’Occidente a rinunciare al modello americano e di allontanare le società islamiche dalle sue lusinghe. Orientativamente, si distingue fra terrorismo interno ed internazionale.
Il terrorismo interno si distingue a sua volta in
due categorie
terrorismo di Stato
terrorismo rivoluzionario (atto a destabilizzare l’ordine costituito)
Il terrorismo internazionale può presentarsi in
due forme:
terrorismo indipendentista.
terrorismo separatistico (secessionista).
Ad esso talvolta si contrappone un terrorismo di tipo colonialista o che può
essere interpretato come tale, anche laddove non sussista la condizione
giuridica di “colonia”, ma di effettiva subordinazione e dipendenza
politico-economica da un paese più potente.
Terrorismo bellico. Dubbia è la definizione di
terrorismo bellico. Vi è chi ritiene che rientri in questa categoria un’azione
di guerra particolarmente efferata, al fine di scoraggiare il nemico: un esempio
ricorrente è lo sganciamento delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto
1945. Viceversa, vi è chi sostiene che per rientrare nella fattispecie
terroristica non sia sufficiente che un’azione di forza ecceda i limiti imposti
dal diritto di difesa e dal diritto punitivo (rispettivamente, “jus in bello” e
“jus ad bellum”) il cui rispetto, in presenza di valutazioni etiche favorevoli,
farebbe, anche formalmente, di una guerra una guerra giusta. In tale definizione
gioca un ruolo fondamentale allora la distinzione tra “forza”, intesa come
legittima, e “violenza”, considerata illegittima. Secondo tale opinione,
pertanto, per identificare anche in guerra un atto terroristico, dovrebbero
mancare le seguenti condizioni fondamentali:
un’autorità legittima (“proper authority”, dotata di monopolio dell’uso della
forza) che pianifichi o perpetri determinate azioni
una giusta intenzione (“right intention”).
Molteplici sfide a tentare di imbrigliare la
fattispecie del terrorismo bellico in una definizione, tuttavia, ci derivano
dalle analisi del conflict management nel mondo del dopo-guerra fredda. Una
prima caratteristica di cui tenere conto è la decadenza del ruolo del diritto
bellico nelle due forme or ora citate (per molti versi endemicamente
indeterminabile nella pratica): questa è una delle cifre fondamentali delle
“nuove guerre” nelle quali emerge un costante abuso della violenza nella
competizione volta a strapparne il monopolio ai “legittimi” gestori. Possiamo
inoltre annoverare l’assenza di un accreditamento ufficiale che identifichi
tutte le parti o attori di tali conflitti. Infine, è sempre più frequente
l’emergenza di molteplici “motivi ingiusti” e mezzi illeciti che garantiscono il
protrarsi dei conflitti e, di conseguenza, i controversi riflessi nelle risposte
della comunità internazionale. Proprio i più recenti “interventi autoritativi di
pace” da parte di aggregati di Stati, operati nel nome di organismi
sovranazionali, hanno provocato dubbi legittimi relativi all’esistenza di
“proper authority” e di effettive “right intentions”, emerse accanto agli
ostentati obiettivi umanitari (vedi umanitarismo), a sostegno di tali azioni. Il
fenomeno della violenza politica terroristica è dilagato per una serie di
ragioni:
a causa della massificazione della vita politica, che ha comportato un crescente
coinvolgimento popolare e, quindi, maggiori occasioni di conflittualità fra i
gruppi sociali;
per la proliferazione dei movimenti indipendentisti, con conseguente
moltiplicazione degli stati sovrani (nel giro di poco meno di due secoli, a
partire dal Congresso di Vienna, si è passati da 23 a 182 Stati).
Le motivazioni possono essere reazioni fattuali
od occasionali, oppure possono essere ispirate ad ideologie politiche o
religiose (anche fondamentaliste). Gli obiettivi possono essere simboli
significativi del potere costituito, ma, più spesso, la popolazione civile:
ovvero gli “innocenti”, coloro che “non dovrebbero” essere colpiti. Ledere
intenzionalmente l’aspettativa di incolumità si inquadra nell’obiettivo di
intaccare la credibilità del sistema/governo in termini di capacità di
protezione, tanto sul fronte interno, quanto su quello estero. L’intenzionalità
di un atto terroristico viene ribadita tramite la rivendicazione. L’effetto
shock e la sua massima diffusione tramite i mass-media sono oggi consustanziali
al terrorismo, i cui obiettivi immediati sono almeno cinque:
attrarre l’attenzione del pubblico (nazionale ed internazionale);
diffondere la conoscenza della causa primaria che ha animato l’azione
terroristica;
ottenere un riconoscimento dell’esistenza di tale causa e, di conseguenza, la
legittimazione del gruppo o movimento che i terroristi rappresentano;
estendere tale legittimazione alla sfida al sistema/governo che si è voluto
colpire;
infine, per lo più, obiettivo ultimo, maturati gli stadi precedenti, è rendere
consapevole la società dell’esistenza della problematica o causa in questione,
onde accedere alla competizione per il potere.
Dalla teoria alla pratica, non mancano riprove di un intento pedagogico in talune manifestazioni, che fa leva sugli effetti psicologici dell’azione - come fu significativamente espresso dalla riproposizione dello slogan di Mao «colpirne uno per educarne cento» che accompagnò alcuni fra i più efferati delitti politici che negli anni ’70 colpirono l’Italia. Al di là della deterrenza, è innegabile infatti un assurdo intento “educativo” mirante a “responsabilizzare” una massa ritenuta passivamente acquiescente rispetto all’ordine costituito. Non va tuttavia dimenticato che attentati terroristici sono stati anche utilizzati come maschera per coprire complotti inter/infra-governativi, per dirottare l’attenzione dell’opinione pubblica verso gruppi considerati “nemici” del Governo, o per rafforzare l’autorità centrale innescando azioni destabilizzanti o, ancora, per coprire delitti ed errori di Stato. L’organizzazione che sostiene i gruppi terroristici, i ricchi mezzi e le reti su cui possono contare sono oggi piuttosto estese, legate ad interessi illeciti ed alle politiche (più o meno occulte) degli armamenti. La destabilizzazione internazionale alimenta questa ”industria”, assicurandole un crescente sviluppo poiché le cause profonde che muovono tanta parte del terrorismo internazionale e che soggiacciono alla sua incontrollabile diffusione, si legano a tali interessi: fine ed innesco. A ciò si aggiunga il pericolo del terrorismo nucleare, derivante da un nuovo mercato sviluppatosi anche in seguito alla spartizione di parte del potenziale nucleare russo in seno alla Comunità degli Stati indipendenti e che ha fatto sì che molto sfuggisse fra le maglie dei controlli, come dimostra il fatto che, a partire dal 1992, si sia riscontrata, su scala mondiale, un’incidenza di una media di 20 incriminazioni l’anno per traffico di armi o componenti di ordigni nucleari (Kimball). Quanto alle misure per contrastare il fenomeno del terrorismo, appannaggio dei ministeri degli interni e della difesa di ciascuno Stato, crescente è il numero di convenzioni e di accordi internazionali bilaterali conclusi negli ultimi anni. Neppure le Organizzazioni internazionali sono rimaste insensibili al problema: l’ONU ha rafforzato, in un crescendo, il suo impegno sul fronte della pace e della sicurezza internazionale, ai sensi della Carta di San Francisco (1946), con la Declaration on Measures to Eliminate International Terrorism, annessa alla Risoluzione AG 49/60 (9 dicembre 1994) – e la successiva integrazione della Declaration to Supplement the 1994 Declaration on Measures to Eliminate International Terrorism annessa alla Risoluzione AG 51/210 (17 dicembre 1996). In questo documento si giudicano tutti gli atti di terrorismo come “criminal and unjustifiable, wherever and by whomever committed”. Infine, con la più recente International Convention for the Suppression of Terrorist bombings (12 gennaio 1998) si vincolano, in particolare, i Paesi firmatari a cooperare nel prendere misure concrete per opporsi ad azioni terroristiche commesse con esplosivi, come contro-reazione all’intimidazione generale ed alle molteplici stragi che negli ultimi anni hanno mietuto un crescente numero di vittime.