Nonviolenza e codardia si accompagnano male.
Posso immaginare un uomo armato fino ai denti che sia, in cuor suo, un codardo.
Il possesso di armi implica un elemento di paura, se non di vigliaccheria. La
vera nonviolenza è invece impossibile ove non si possegga un indomito coraggio.
La nonviolenza non deve mai essere usata a mo' di scudo per la codardia. Essa è
un'arma per il valoroso. Non scorgo né eroismo né sacrificio nel distruggere
vite o proprietà, per offesa o per difesa.
La prova del nove della nonviolenza è che, in un conflitto nonviolento, non vi
sono strascichi di rancore e, alla fine, i nemici si tramutano in amici. Di ciò
ho fatto esperienza in Sudafrica con il generale Smuts. Questi fu, dapprima, il
mio più accanito avversario. Oggi è il mio amico più affettuoso.
Questo è, in sostanza, il principio della non-collaborazione non-violenta. Ne
consegue che esso deve affondare le sue radici nell'amore. Il suo scopo non dev'essere
quello di punire o di infliggere ferite all'avversario. Pur non collaborando con
lui, dobbiamo fargli sentire che in noi egli ha un amico, e dobbiamo tentare di
toccargli il cuore rendendogli servigi umanitari ogni volta che ci è possibile.
La verità (satya) implica amore, e la fermezza (agraha) genera - e quindi ne è
sinonimo - la forza. Perciò ho preso a chiamare satyagraha il movimento per
l'indipendenza dell'India. Vale a dire: una forza che nasce dalla verità,
dall'amore, dalla nonviolenza.
Ahimsa è attributo dell'anima e, quindi, deve esser praticato da chiunque, in
ogni faccenda della vita. Se non vien messo in pratica in ogni settore, non ha
alcun valore pratico. L'ahimsa non è quella cosa rozza che si è voluto far
apparire. Non nuocere ad alcun essere vivente fa, senza dubbio, parte dell'ahimsa.
Però ne è solo un'espressione secondaria. Al principio dell'ahimsa nuoce
qualsiasi pensiero malvagio, nuoce l'indebita fretta, nuocciono le menzogne,
l'odio, il malaugurio, l'invidia. Questo principio viene altresì violato quando
si tiene per sé ciò di cui il mondo ha bisogno.
In un'epoca come questa, in cui la forza bruta detta legge, è quasi impossibile,
per chiunque, credere che qualcuno possa rifiutare la legge della supremazia
della forza bruta. Perciò ricevo lettere anonime in cui mi si consiglia di non
interferire nella campagna della non-collaborazione, anche qualora da essa
nascessero atti di violenza. Altri vengono da me e, presumendo che io,
segretamente, stia tramando violenza, mi chiedono quando verrà il felice momento
in cui le ostilità violente saranno apertamente dichiarate. Gli inglesi - mi
assicurano costoro - non cederanno mai se non alla violenza, aperta o
clandestina. Altri ancora - mi si informa - credono ch'io sia il più gran
mascalzone vivente in India, poiché non rivelo mai le mie vere intenzioni,
mentre essi non hanno alcun dubbio ch'io, dentro di me, creda nella violenza al
pari di quasi tutti gli altri.
Siccome la dottrina della spada è così radicata nella maggior parte degli
uomini, siccome il successo della non-collaborazione dipende soprattutto dalla
rinuncia a ogni violenza dal principio alla fine, e siccome le mie tesi al
riguardo determinano la condotta di un gran numero di persone, desidero
precisare questi concetti nel modo più chiaro possibile. Credo fermamente che,
laddove non ci sia da scegliere che tra codardia e violenza, si debba
consigliare la violenza. Perciò, quando il mio figlio maggiore mi chiese come si
sarebbe dovuto comportare qualora fosse stato presente allorché io, nel 1908,
venni aggredito e ridotto quasi in fin di vita (scappar via e lasciare che mi
ammazzassero, oppure seguire il suo istinto e usar la propria forza fisica per
difendermi), io gli risposi che sarebbe stato suo dovere difendermi, anche a
costo di usare violenza.
Però credo fermamente che la nonviolenza sia mille volte superiore alla
violenza, che il perdono sia più virile del castigo. «Il perdono nobilita il
soldato». Ma l'astensione dal castigo equivale al perdono soltanto allorché si
ha il potere di punire; non ha senso, invece, quando proviene da una creatura
impotente. Un topo non perdona il gatto nel momento in cui non può far altro che
lasciarsi sbranare. Io, perciò, apprezzo il sentimento di quanti reclamano
l'esemplare punizione del generale Dyer e dei suoi pari. Lo farebbero a pezzi,
se potessero. Ma non credo che l'India sia impotente. Non considero me stesso
una creatura impotente. Solo, intendo usare la mia forza e la forza dell'India
per uno scopo migliore.
Non mi si fraintenda. La forza non deriva dalla capacità fisica. Proviene da
un'indomita volontà. Uno Zulu medio è in grado di sopraffare, in qualsiasi
momento, un inglese medio, in un combattimento a corpo a corpo. Però fugge di
fronte a un ragazzino inglese, poiché teme la sua rivoltella o quelli che
l'userebbero per lui. Teme la morte e perde coraggio nonostante la prestanza
fisica. Noi in India potremmo anche renderci conto da un momento all'altro che
centomila inglesi non debbono spaventare trecento milioni di esseri umani. In
questo caso, certo, il perdono significherà il sicuro riconoscimento della
nostra forza. Assieme al perdono illuminato verrà senz'altro a noi, come
un'onda, una gran forza, e allora non sarà più possibile a un generale Dyer o a
un Frank Johnson recare affronto all'India remissiva. Importa poco che, per il
momento, io non riesca a inculcare il mio principio. Ci sentiamo troppo
umiliati, adesso, per non nutrire rabbia e desiderio di vendetta. Ma non posso
astenermi dal dire che l'India ha tutto da guadagnare rinunciando al
suo diritto di punire. Abbiamo un lavoro migliore da svolgere, una missione più
alta da compiere per il mondo intero.
Non sono un visionario. Mi reputo un idealista pratico. La religione della
nonviolenza non è intesa soltanto per i rishi [saggi indù] e per i santi. È
intesa anche per la gente comune. La non-violenza è la legge della nostra
specie, come la violenza è la legge dei bruti. Lo spirito giace in letargo, nel
bruto, ed egli non conosce altra legge che quella della possanza fisica. La
dignità umana richiede che si obbedisca a una legge più alta: alla forza dello
spirito. Mi son quindi azzardato a proporre all'India l'antica legge del
sacrificio-di-sé. Poiché il satyagraha e le sue diramazioni - la
non-collaborazione e la resistenza civile - non sono altro che nuovi nomi per la
legge della sofferenza. Quei rishi che scoprirono la legge della nonviolenza nel
bel mezzo della violenza eran dei geni più grandi di Newton. Ed eran guerrieri
più grandi di Wellington. Benché esperti nell'uso delle armi, essi ne compresero
l'inutilità e insegnarono a un mondo affranto che la sua salvezza non poteva
venire dalla violenza, bensì dalla nonviolenza.
Nonviolenza, nella sua condizione dinamica, significa cosciente sofferenza. Non
significa mite sottomissione alla volontà dei malvagi, ma comporta l'impegno di
tutta l'anima a opporsi alla volontà del tiranno. Operando in nome di questa
legge interiore, risulta impossibile per un singolo individuo sfidare tutto il
potere di un ingiusto impero per salvare il proprio onore, la propria religione,
la propria anima e adoperarsi per la caduta di quell'impero o per la sua
rigenerazione. Dunque, non chiedo all'India di praticare la nonviolenza perché è
debole. Voglio ch'essa la pratichi essendo ben conscia della sua propria forza,
del suo proprio potere. Nessun addestramento alle armi è necessario per
dispiegare questa forza. Si può credere di averne bisogno perché si pensa di
essere soltanto un corpo inerte. Voglio che l'India si renda conto di avere
un'anima che non può perire, ma che è capace di elevarsi trionfalmente al di
sopra di ogni debolezza fisica e di sfidare il mondo intero.
Qual è il significato di Rama, semplice essere umano, che, aiutato da un'orda di
scimmie, si oppone alla forza insolente di Ravana dalle dieci teste, il quale si
crede al sicuro perché circondato da acque impetuose, nell'isola di Sri Lanka?
Non sta forse a significare la vittoria della forza spirituale sulla possanza
fisica? Però, essendo un uomo pratico, non aspetterò che l'India scopra da sé
l'efficacia dell'arma spirituale nella lotta politica. L'India si ritiene
impotente e si paralizza di fronte alle mitragliatrici, ai carri armati e agli
aeroplani degli inglesi. E fa derivare la non-collaborazione dalla sua
debolezza. Tuttavia essa servirà allo stesso scopo, cioé a liberarla
dall'oppressione inglese, dal peso di questa ingiustizia, se un numero
sufficiente di persone la metteranno in pratica. Io distinguo questo movimento
di non-collaborazione dal movimento indipendentista irlandese, il Sin Fein,
poiché il nostro non è conciliabile in alcun modo con la violenza. Tuttavia
invito anche gli adepti della scuola della violenza a provare invece con la
pacifica non-collaborazione, o resistenza passiva.
Se fallisse, non sarebbe a causa della sua intrinseca debolezza. Potrebbe
fallire per una scarsità di adesioni. Allora il pericolo sarebbe davvero grave.
Gli uomini d'animo nobile - che non possono tollerare più a lungo l'umiliazione
della loro patria - vorranno dare sfogo alla rabbia. Si voteranno alla violenza.
Per quel che ne so io, periranno però senza liberare se stessi e il Paese
dall'oppressione. Se l'India adottasse la dottrina della spada, potrebbe
conseguire una vittoria momentanea. Allora, però, cesserebbe di essere
l'orgoglio del mio cuore. Io sono sposato all'India poiché a essa debbo tutto di
me. Credo, assolutamente, che essa abbia una missione nel mondo. Non deve
imitare ciecamente l'Europa. Se l'India accettasse la dottrina della spada, io
verrei messo allora a dura prova. Spero di non venir trovato in difetto. La mia
fede in essa, questa fede vivente trascenderà il mio stesso amore per l'India.
La mia vita è votata a servire l'India mediante la religione della non-violenza
che, secondo me, sta alla radice dell'induismo.
Frattanto sollecito coloro che non si fidano di me a non disturbare il pacifico
andamento della lotta appena cominciata, incitando alla violenza perché convinti
che io desideri la violenza. Detesto i sotterfugi, l'insincerità. Si dia modo a
questa gente di metter alla prova la non-collaborazione nonviolenta, e ci si
accorgerà che io non ho e non ho mai avuto riserve mentali di sorta. La forza
della nonviolenza è di gran lunga più meravigliosa e arcana delle forze
materiali della natura, come l'elettricità. La forza generata dalla nonviolenza
è infinitamente maggiore della forza di tutte le armi inventate dall'ingegno
umano.
Sebbene la non-collaborazione sia una delle
principali armi nell'arsenale del satyagraha, non va però dimenticato che non è,
dopotutto, altro che un mezzo per assicurarsi la collaborazione dell'avversario,
in armonia con la verità e la giustizia.
Troncare ogni rapporto con le potenze avversarie non sarà mai, quindi, consono
ai fini del satyagraha, il quale mira invece a trasformare o purificare quei
rapporti. La disobbedienza civile rientra fra i diritti di qualsiasi cittadino.
Nessuno può rinunciarvi senza cessare di essere uomo. Alla disobbedienza civile
non tiene mai dietro l'anarchia. La disobbedienza criminale può invece condurvi.
Ogni Stato reprime con la forza la violenza criminale. Perirebbe, se così non
facesse. Ma reprimere la disobbedienza civile equivale a cercar di incarcerare
le coscienze.
Non credo nelle scorciatoie violente al successo. Per quanto io ammiri i nobili
motivi e simpatizzi con essi, sono incondizionatamente avverso ai metodi
violenti, anche se al servizio della causa più giusta. L'esperienza mi ha
convinto che un bene permanente non potrà mai esser frutto di non-verità e di
violenza. La nonviolenza implica la volontaria sottomissione alle pene previste
per la non-collaborazione con il male.
Chiudo questo mio scritto suggerendo alcune norme e direttive da mettersi subito
in pratica.
Non si devono accettare volontari impreparati per le grandi dimostrazioni.
Pertanto solo i più esperti dovrano porsi alla testa dei cortei.
I volontari dovranno avere con sé un opuscolo con le istruzioni generali.
Nell'imminenza di una dimostrazione, si dovranno passare in rassegna i volontari
e impartire loro speciali istruzioni.
Nelle stazioni, i volontari non dovranno concentrarsi tutti in un solo punto,
presso il comitato di ricevimento, ma dovranno essere scaglionati qua e là tra
la folla.
Alle stazioni non dovranno accedere grandi folle. Non farebbero che intralciare
il traffico. C'è altrettanto onore nell'entrare in stazione, quanto nel restarne
fuori.
Primo compito dei volontari sarà far sì che i bagagli degli altri passeggeri non
vengano calpestati.
I dimostranti non entreranno in stazione molto prima dell'ora d'arrivo prevista.
Si dovrà lasciare un varco per consentire ai passeggeri di raggiungere il treno.
Un secondo corridoio dovrà restare aperto al centro della dimostrazione, per il
passaggio delle personalità.
Non si formino catene. È umiliante.
I dimostranti non si muovano finché le personalità non abbiano raggiunto le loro
carrozze, o finché non abbiano ricevuto un segnale convenuto da un volontario
autorizzato.
Gli slogan nazionali debbono essere prestabiliti e non vanno lanciati comunque,
in qualsiasi momento o tutto il tempo, bensì solo all'arrivo del treno, allorché
le personalità salgono in carrozza, e poi, durante il corteo, a giusti
intervalli.
Non si obietti che, in tal modo, la dimostrazione diverrebbe meccanica e tutt'altro
che spontanea. La spontaneità dipenderà da quanto saranno nutrite le grida,
dalla reazione a esse e dall'atteggiamento generale dei dimostranti, non già dal
gran numero di slogan scomposti né dall'intensità delle grida. È l'addestramento
di cui i partecipanti danno prova a caratterizzare le dimostrazioni. Un
maomettano che in silenzio prega nella sua moschea non è meno «dimostrativo» di
un indù che, al tempio, produce gran clamore con la voce, con il gong o con
entrambi.
Lungo il percorso la folla deve allinearsi e non seguire le carrozze. Se del
corteo fanno parte pedoni, essi debbono prender posto in silenzio e
ordinatamente, e non partecipare o astenersi a loro piacimento.
La folla non dovrà far ressa sulle personalità, ma scostarsi da esse.
Chi si trova ai margini della cerchia non dovrà premere in avanti né opporre
resistenza a una pressione in senso contrario.
Se vi sono donne in mezzo alla folla, esse vanno protette.
Non si dovranno portare tra la folla bambini piccoli.
Alle riunioni, i volontari si disperdano tra la folla. Imparino a far segnali
con bandierine o mediante fischietti al fine di comunicarsi istruzioni, qualora
a voce non sia possibile.
Non spetta al pubblico mantenere l'ordine. Basta, per questo, che sia fermo e in
silenzio.
Soprattutto, ciascuno deve obbedire alle istruzioni dei volontari senza fare
domande.
Il mio amico Shaukat Ali sembra dare la massima importanza alla violenza e
ritenere che uccidere il proprio nemico sia il dharma dell'uomo. Quindi, egli
segue la legge della nonviolenza con il cuore gonfio di odio. Secondo lui, la
non-collaborazione è un'arma dei deboli, inferiore, quindi, alla resistenza
attiva. Ciononostante, si è unito a me perché ha capito che, a parte la
non-collaborazione o resistenza passiva, non v'è alcun altro metodo efficace per
tener alto l'onore della sua fede.
Faccio appello a quanti non hanno fede in me, affinché seguano il mio amico
Shaukal Ali. Non occorre che credano nella purezza delle mie motivazioni, ma
devono chiaramente rendersi conto che violenza e non-collaborazione non possono
andar insieme. Il maggior ostacolo al lancio di una grande campagna di
resistenza passiva è proprio il timore che da essa si scatenino violenze. Coloro
che hanno pronte le armi debbono metterle da parte fintanto che è in corso la
non collaborazione. A mio avviso, il giorno in cui la forza bruta dettasse legge
in India, ogni distinzione fra Est e Ovest, fra antico e moderno, verrebbe a
scomparire. Quello sarà il giorno del giudizio, per me. Io sono fiero di
considerare l'India mia patria, poiché ritengo che essa sia in grado di
dimostrare al mondo la supremazia della forza d'animo. Qualora l'India
accettasse la supremazia della forza bruta, non sarei più felice di chiamarla
mia patria. Sono convinto che il mio dharma non riconosce limiti fra le varie
sfere del dovere, né confini geografici. Prego Dio affinché io possa essere in
grado di provare che il mio dharma non si dà alcun pensiero della mia persona né
è limitato a un campo particolare.
Il satyagraha è una forza che può venir impiegata sia da individui sia da
comunità. Può usarsi sia negli affari politici sia in quelli domestici. La sua
applicabilità universale ne dimostra la permanenza e l'invincibilità. Può esser
usato da uomini, donne e bambini. Non corrisponde affatto al vero dire che è una
forza che possono usare solo i deboli in quanto non potrebbero rispondere alla
violenza con la violenza. In questa età di grandi prodigi nessuno dirà che una
cosa o un'idea non vale niente perché è nuova. Dirlo è impossibile, in quanto
non sarebbe consono allo spirito dell'epoca. Oggi si vedono cose di cui un tempo
non ci si sognava neppure, l'impossibile sta diventando sempre più possibile.
Restiamo stupefatti, di continuo, di fronte alle attuali invenzioni e scoperte
nel campo della violenza. Ma io sostengo che scoperte ancor più meravigliose, un
tempo impensate e in apparenza impossibili, saranno effettuate nel campo della
nonviolenza.
La nonviolenza è la più grande forza a disposizione del genere umano. È più
potente della più micidiale arma che l'ingegno umano possa inventare. Dobbiamo
fare della verità e della nonviolenza non materia di pratica individuale bensì
di gruppi, di comunità, di Nazioni. Questo è comunque il mio sogno. Vivrò e
morirò per tentare di realizzarlo. La fede mi aiuta a scoprire ogni giorno nuove
verità"