Il vaglio e l’applicazione di metodi di risoluzione internazionale dei conflitti, oltre ad aver comportato una sfida alla tradizionale definizione di pace, giocano oggi un ruolo importante che comporta uno stravolgimento degli assetti sia della politica internazionale, sia sul fronte interno ai singoli Stati, sia a livello diplomatico, sia degli apparati (vedi conflitti, guerra, forze armate). Il cosiddetto nuovo ordine mondiale, succeduto a quello bipolare, propone uno scenario in cui un Nord del mondo tendenzialmente pacifico si contrappone un Sud travagliato da conflitti. Sul fronte interno ai singoli Stati almeno due sono conseguenze più eclatanti: da un lato, presso i membri delle maggiori Organizzazioni internazionali ed interregionali, l’attivazione accanto ad un servizio militare volontario di corpi specializzati in operazioni di pacificazione; a ciò corrisponde, dall’altro lato, il crescente coinvolgimento di agenzie private di sicurezza (associazioni mercenarie) negli interventi armati di emergenza per la risoluzione dei conflitti nei paesi meno avanzati.
I metodi di risoluzione dei conflitti vanno ben oltre agli intenti di pacificazione di guerre siano queste convenzionali o meno. Sono certo ancora ricorrenti le missioni di emergenza portate da paesi dal passato colonialista nell’ambito di conflitti esplosi in ex-colonie. Tali interventi, a loro volta, sono stati spesso animati da logiche neocolonialiste, giustificate dal mantenimento di rapporti economici preferenziali e dal sostegno ad un certo governo o regime. Si pensi, per es., agli interventi francesi nel Ciad e nelle Comore, all’intervento americano ad Haiti o al recente impegno inglese nella Sierra Leone. Le polemiche suscitate da simili azioni militari sono il frutto di una nuova percezione del sistema-mondo e della fase di transizione che questo sta attraversando: emerge oggi l’aspirazione ad un maggiore intervento in queste emergenze delle Organizzazioni internazionali e degli organismi sovranazionali. Recenti esperienze hanno dimostrato come il controllo e la gestione delle dinamiche che regolano le associazioni regionali arginerebbero la necessità di tali interventi. Proprio lungo queste dinamiche, infatti, si snoda il fenomeno della cosiddetta riproduzione dei conflitti. Oggi, accanto ad un puntuale intervento di emergenza, non si può prescindere da un’analisi delle cosiddette emergenze politiche complesse (complex political emergencies, CPE). Queste, solitamente, hanno carattere transnazionale e richiedono una serie di interventi mirati e progressivi, in coordinamento fra fronte interno, regionale ed internazionale. L’adozione della cosiddetta Agenda for Peace da parte della Segreteria Generale delle Nazioni Unite, che tende progressivamente ad affidare la gestione del conflict management alla comunità internazionale organizzata, costituisce certamente un importante passo. Tuttavia permangono seri dubbi sull’effettivo successo ottenuto nelle operazioni di pacificazione gestite dalle grandi Organizzazioni Internazionali. Se la soluzione della questione cambogiana è da ritenersi un successo, l’intervento nella ex-Yugoslavia è da considerarsi un autentico fallimento, mentre gli interventi in Somalia e Ruanda dividono ancora l’opinione degli esperti. In ogni scenario di conflitto, dunque, si fanno largo tre istanze, da affiancare e integrare reciprocamente:
Azioni di mantenimento della pace, che tuttavia, se lasciate a se stesse, rischiano di avere un mero effetto-tampone. Spesso implica la collocazione di persone - civili e militari - in posizione di inter-posizione fra le parti ostili, per aiutare a controllare e risolvere un conflitto. Le forze di pace portano un casco blu o un berretto blu. Nel 1988, alle forze di pace dell'ONU è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace.
Politiche durature che rendano la pace stessa una condizione permanente.
Politica di prevenzione dell’insorgere di futuri focolai del conflitto. Comporta tentativi di ricostruzione e riconciliazione (o ristabilimento di relazioni amichevoli). Con la costruzione di progetti che uniscono insieme le parti ostili, si spera di creare il clima di fiducia necessario alla pace.
Azione per la composizione dei conflitti con mezzi pacifici: negoziati, composizione giudiziaria, sanzioni,o accordi di cessate il fuoco.
Azione per dirimere le controversie prima che deflagrino nella forma di conflitti militari. Può comportare avvertimenti preventivi, mediazione, indagini sul campo e misure di costruzione della fiducia.
Anche nell’intento di arginare i gravi costi che porterebbe la gestione di peace keeping semplicemente incentrato sulla forza, si mira, insomma, ad una “doppia transizione”: si tende sempre più ad intrecciare strategie di pacificazione esterna con programmi di riconciliazione nazionale, cui dovrebbe seguire la ristrutturazione di un sistema politico e di un tessuto istituzionale. Oggi le Organizzazioni internazionali, constatando da una parte i buoni risultati ottenuti dall’assistenza umanitaria (vedi umanitarismo), ma, dall’altra parte, prendendo atto della scarsa capacità di tenuta delle operazioni di peacekeeping – emblematico il caso del Kossovo, trasformato dal 1998 in una regione nelle mani di forze internazionali di polizia - tendono piuttosto ad orientarsi verso la creazione di presupposti di pace. Questi devono agevolare un miglioramento delle condizioni socio-politiche interne dei paesi coinvolti, a garanzia di ripristino, attecchimento e protezione della stabilità strutturale di quei paesi e dei partner di progetti di cooperazione. Nel far ciò, si punta sempre più al coinvolgimento diretto delle istituzioni a garanzia della pacificazione, della cooperazione e del coordinamento di queste istituzioni, siano esse governative, inter-governative o anche organizzazioni non governative (NGO/ONG). Tale coinvolgimento dovrebbe, almeno nelle intenzioni, stimolare in modo crescente l’intervento di organismi regionali e coinvolgerli sempre più nell’ottica di una prevenzione dei conflitti. L'ONU ha diversi mezzi che può utilizzare per contribuire alla risoluzione dei conflitti:
Gli Stati Membri possono sottoporre un conflitto all'attenzione del Consiglio di Sicurezza. A questo punto il Consiglio di Sicurezza può invitare le nazioni in conflitto a risolvere le loro controversie con mezzi , (articolo 33).
Se le nazioni in conflitto non riescono a raggiungere un accordo autonomamente, possono riferire la controversia alla Corte Internazionale di Giustizia, che deciderà chi ha ragione e chi ha torto (articolo 36).
Il Consiglio di Sicurezza può chiedere ai Membri delle Nazioni Unite di interrompere gli scambi commerciali con il paese o i paesi interessati, e tagliare tutte le forme di comunicazione, comprese quelle via mare, aria ferrovia, posta, telefono, radio, ecc. Agli Stati Membri può anche essere richiesto di chiudere le proprie ambasciate nel paese o nei paesi interessati (articolo 41).
Se tutto ciò non funziona, o se viene considerato non praticabile, il Consiglio di Sicurezza può inviare forze di pace neutrali dell'ONU a presidiare zone di sicurezza o smilitarizzate, oppure a imporre o controllare l'applicazione di accordi di tregua, fino a che non venga raggiunto un accordo permanente. Tuttavia, le forze di pace possono essere inviate solo se tutte le parti in conflitto concordano sulla loro presenza.
Il Consiglio di sicurezza può avvalersi di personale e mezzi militari da impiegare, sotto la sua autorità sopranazionale e nel rigoroso rispetto della Carta, in azioni di interposizione fra le parti, in blocchi e dimostrazioni militari e analoghe operazioni come prevede l'art. 42, ma mai in azioni di guerra, definita come "flagello" e quindi vietata dalla Carta. Gli stati possono esercitare soltanto il diritto di autotutela in risposta immediata ad un attacco armato fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia adottato le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza (art. 51).
L'articolo 43 richiede a tutti gli Stati Membri di mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza un contingente concordato di forze militari, da utilizzare nei casi suddetti.
Queste misure possono essere molto efficaci, se si pensa che l'ONU rappresenta quasi tutto il mondo - 185 stati in tutto (marzo 1995).1 paesi belligeranti dovrebbero riflettere bene, prima di ignorare l'opinione di tutto il pianeta. Nel peace-keeping l'ONU è stato il pioniere, ma con una lenta evoluzione, dal suo primo utilizzo nel 1948. Negli anni più recenti, il peace-keeping ha assunto maggiore importanza in situazioni nelle quali la diplomazia preventiva o la costruzione della pace erano falliti. Nel 1994 erano in atto nel mondo 17 operazioni di peace-keeping.
Esistono alcune differenze importanti fra le
forze di pace dell'ONU e altre forze armate:
* le forze di pace dell'ONU non possono schierarsi a sostegno di una delle parti
conflitto
* i paesi in conflitto devono concordare sulla presenza delle forze di pace - le
forze di pace dell'ONU in genere hanno armamenti leggeri e non possono usare la
forza se non quando sono attaccate
* le forze di pace dell'ONU possono comprendere anche forze di polizia e altri
civili, perché il peace-keeping comprende un insieme di attività, compresa
l'assistenza umanitaria, il monitoraggio delle elezioni, il ruolo di osservare e
riferire sulla situazione in questione.
E’ il ciclo degli stati emotivi di cui si fa
esperienza andando verso la mediazione. In risposta allo stress, a un forte
trauma, o ad un conflitto, gli esseri umani passano attraverso un ciclo
emozionale conosciuto come “ciclo risolutivo”. Le sue fasi basilari sono
shock/negazione
mercanteggiare
senso di colpa
paura
depressione
rabbia
accettazione/risoluzione
Il ciclo si manifesta nelle persone come nei gruppi e nelle nazioni. La popolazione di un paese che si prepara ad andare in guerra fa esperienza di un primo stato di shock e negazione. Poi tenta di venire a patti con la situazione, prova senso di colpa, paura e rabbia. Infine, che la guerra sia persa o vinta, la popolazione va verso l’accettazione e la risoluzione. Il ciclo non si applica solo ad un dolore intenso o ad un conflitto grave. Lo stress del cambiare lavoro, del divorziare, ecc. può dare inizio allo stesso ciclo. Il ciclo risolutivo è parte della normale vita umana. La sequenza dei passi può variare, e si può andare e tornare in una stessa fase più volte. A volte, senza aiuto adeguato, non si giunge davvero alla fase “risoluzione”.
Quello che si non dovrebbe mai dire in presenza
della manifestazione del dolore e della perdita:
Poteva andare peggio
Questo è sempre vero. Ma non è in alcun modo consolatorio.
La persona cara che hai perduto è in un posto migliore
Il problema non è che la perdita è permanente, ma che il dolore è intenso e
continuato
Devi lavorare duramente e pensare ad altro
In presenza di uno shock grave, la persona colpita opererà al 10/15% delle proprie capacità per almeno i 6 mesi successivi al trauma. Possono volerci dai 3 ai 5 anni per recuperare interamente. Suggerirgli di fare di più può gratificare chi lo consiglia, ma non chi sta soffrendo. La cosa migliore è esprimere liberamente la propria “simpatia”, anche se non si sa che parole usare: "Sono dispiaciuto/a. Non so cosa dirti, ma sono addolorato/a per te. Vorremo poter fare qualcosa. Ti pensiamo molto, preghiamo per te". Uscire dal dolore è un processo che necessita pazienza. Tentare di forzarlo aumenta lo stress e “chiude” la persona in una delle fasi del ciclo risolutivo (solitamente la negazione).
I processi di riconciliazione nazionale sono sempre più considerati come parte integrante e premessa indispensabile a strategie di pacificazione durature, a partire dal seno di una nazione, e coinvolgenti poi le relazioni politiche con l’esterno. I metodi di riconciliazione possono essere molteplici; essi mirano al consenso per garantire una implementazione della condizione di pace sociale allargata, che garantisca poi l’applicazione della giustizia e la durata di tale condizione. Nonostante tale proposito teorico, i meccanismi di riconciliazione, ancora fino a poco tempo fa, erano lasciati al potere “sanante” del tempo. Le modalità più eclatanti di processi di riconciliazione nazionale hanno visto la promozione di “commissioni per l’accertamento della verità” che hanno per lo più imposto una riconciliazione fittizia, la chiusura ufficiale di un capitolo della storia, coronato dalla blanked amnesty garantita agli aguzzini di regimi repressivi: è successo in Uganda e nel Chad. In altri paesi si è assistito all’istituzione di processi a porte chiuse: si pensi alla Commissione Retting, in Cile, promossa nel maggio 1990, o, ancora, tramite hearings pubblici: un valido esempio è la Truth and Reconciliation Commission, istituita nel 1995 in Sudafrica. Quest’ultima modalità evidenzia la necessità di rendere partecipe la maggior parte della popolazione possibile al processo catartico collettivo, ma vale anche come prima tappa del processo educativo verso una riappropriazione di gestione democratica della società.