La cooperazione allo sviluppo può costituire un laboratorio del cambiamento, uno strumento per mettere a punto le soluzioni innovative che devono accompagnare i processi di sviluppo. Per fare questo, però, essa deve superare i limiti che l’affliggono e che sono riconducibili ad una radice comune: un difetto di partecipazione effettiva della maggior parte della gente ai processi di sviluppo.
I principali modi in cui si manifesta il difetto
di partecipazione sono:
* il centralismo, cioè il fatto che tutte le decisioni importanti che riguardano
un gran numero di persone che vivono in aree lontane e diverse tra loro vengono
prese in pochissime sedi centrali senza il coinvolgimento dei soggetti locali;
* l’assistenzialismo, cioè il fatto che sono stati promossi interventi che,
invece di formare capacità, alimentano la dipendenza e la passività dei
beneficiari.
Nella cooperazione tradizionale, i limiti sopra ricordati hanno dato luogo ai progetti a pioggia, ai macro-interventi non sostenibili, a progetti frammentari concordati con il Governo del Paese (talvolta chiamati pretenziosamente “programmi paese”), agli interventi decisi dai politici o dagli esperti senza che i diversi attori sociali ne sapessero nulla. Con il tempo si affermò la consapevolezza che il modello del macro-intervento (la realizzazione di grandi infrastrutture con il conseguente impiego massiccio di capitali, tecnologie e professionisti occidentali) non funzionava perché spesso aggravava le condizioni di dipendenza del paese beneficiario. Fu così che, soprattutto grazie agli interventi promossi dalle ONG, si iniziò ad affermare la strategia del micro-intervento che presentava maggiori garanzie di sostenibilità (la capacità del progetto di sostenersi nel tempo) proprio per il fatto di fondarsi sul coinvolgimento dei beneficiari e sulla logica bottom-up (“dal basso verso l’alto”) ossia l’identificazione di un intervento a partire dalle esigenze locali. I due modelli, macro e micro, convissero nel corso degli anni ’80. Negli anni ’90, la visione dello sviluppo cambia radicalmente. Lo sviluppo viene finalmente recepito non più esclusivamente nei termini della crescita economica, bensì come un processo multidimensionale in cui economia, politica e cultura si intrecciano in modo complesso. Se, da un lato, il concetto di “Sviluppo Umano” elaborato dall’UNDP ebbe il merito di mettere in primo piano il benessere degli uomini, il Vertice mondiale di Copenhagen sullo “Sviluppo Sociale” (1995) ebbe il merito di sottolineare la necessità della partecipazione della società civile nelle decisioni riguardanti la collettività e di svelare l’esistenza di una “questione sociale mondiale” -disoccupazione, povertà, esclusione sociale, sono problematiche che, seppur con gradi differenti, riguardano sia i paesi del Sud, sia i paesi del Nord del mondo-. Nel contesto di questi ripensamenti venne riconosciuto alla società civile un ruolo attivo nei processi di sviluppo e nelle attività di cooperazione internazionale. Un riconoscimento che non si esaurisce alle attività realizzate dalle ONG, ma che riguarda anche, in misura crescente, il ruolo delle autorità locali, dei gruppi di base, dei sindacati, delle cooperative, delle università, etc.
Per cooperazione decentrata si intende una azione di cooperazione allo sviluppo svolta dalle Autonomie locali italiane (Regioni, Province, Comuni), singolarmente o in consorzio tra loro, attraverso il concorso delle risorse della società civile organizzata presente sul territorio di relativa competenza amministrativa (università, sindacati, ASL, piccole e medie imprese, imprese sociali). Questa azione di cooperazione deve realizzarsi attraverso una sorta di partenariato con un ente omologo del Sud del mondo. In altri termini, due enti locali (uno al Nord e uno al Sud del mondo) concertano tra loro per la definizione e la realizzazione di un progetto di sviluppo locale. Si tratta di una forma di cooperazione che mira al coinvolgimento della società civile, tanto quella del “Nord” quanto quella del “Sud”, nelle fasi di ideazione, progettazione ed esecuzione dei progetti di sviluppo.
Più in particolare gli obiettivi perseguiti dalla
cooperazione decentrata sono:
* mobilitare le popolazioni e tener conto maggiormente dei loro bisogni e delle
loro priorità;
* rafforzare il ruolo e la posizione della società civile nei processi di
sviluppo;
* favorire lo sviluppo economico e sociale – duraturo ed equo - attraverso la
partecipazione.
La cooperazione decentrata, prevedendo la partecipazione diretta degli individui, sia quelli dei paesi donatori che quelli dei paesi beneficiati, riconosce l’esistenza di una molteplicità di soggetti dello sviluppo. In questo modo, si discosta notevolmente dalla logica dei macro-interventi ideati nei centri decisionali occidentali ed esportati, spesso in modo acritico, un po’ ovunque nel mondo. La cooperazione decentrata è pensata a partire dalle esigenze locali e progettata attraverso un’integrazione delle competenze locali e delle competenze dell’ente del paese industrializzato che promuove l’intervento. Il riconoscimento delle competenze specifiche delle entità locali (piccole e medie imprese, imprese sociali, sindacati, università…) e l’invito a farle cooperare rappresenta l’elemento qualificante della cooperazione decentrata. Gli enti locali, infatti, dovrebbero agire in base alle loro competenze (ad esempio, il comune di Genova avendo delle competenze marittime potrebbe promuovere progetti con città portuali piuttosto che con un oasi del Sahel; la regione dell’Emilia Romagna ha competenze agricole e pertanto potrebbe attivarsi in questa direzione, etc.). A loro volta, i programmi decentrati, per il loro carattere ristretto, sono più controllabili e proprio il fatto di aver puntato sullo sviluppo locale costituisce una garanzia di sostenibilità dell’intervento, ossia la sua capacità di sostenersi nel tempo attraverso le risorse umane, tecniche ed istituzionali locali, attraverso una capacità di gestione locale. La cooperazione decentrata non deve essere considerata come una via d’uscita di fronte ai fallimenti delle forme di cooperazione tradizionali quanto piuttosto uno strumento nuovo che, con le sue caratteristiche, dovrebbe affiancarsi alle forme di cooperazione già esistenti. Si tratta, ad ogni modo, di una forma giovane di cooperazione e pertanto non ancora collaudata e i cui risultati potranno essere valutati soltanto in futuro.
La cooperazione decentrata è stata introdotta
nelle disposizioni generali della IV° Convenzione di Lomè (ACP-UE) firmata nel
1989, che stabilisce un accordo di cooperazione tra Europa e paesi dell’Africa,
dei Caraibi e del Pacifico. Nell’art.20 di tale convenzione, relativo alle parti
attive della cooperazione, si afferma il principio di una cooperazione
decentrata realizzata attraverso il concorso di parti attive economiche, sociali
e culturali. Tra queste parti attive i poteri pubblici decentrati vi sono
esplicitamente menzionati. Nel 1992, quest’approccio è stato esteso ai paesi in
via di sviluppo dell’America Latina e dell’Asia (ALA-UE). Nella dichiarazione
adottata al termine della Conferenza euromediterranea di Barcellona del 1995 i
Paesi partecipanti manifestarono la volontà di rafforzare gli strumenti della
cooperazione decentrata, decidendo tra l’altro, di “incoraggiare i contatti” al
livello “delle autorità regionali” e delle “collettività locali”. Questo nuovo
approccio alla cooperazione internazionale si è gradualmente affermato nel corso
di questi ultimi anni e si è concretizzato nella creazione, in sede europea, di
una linea finanziaria specifica destinata alla promozione della cooperazione
decentrata attraverso il finanziamento di azioni di mobilitazione, di
informazione ed il finanziamento di azioni-pilota. L’importanza della
cooperazione decentrata è stata riaffermata nella Convenzione di Lomè IV bis del
1995, dove sono state adottate disposizioni specifiche relative alla
cooperazione decentrata. Attraverso la cooperazione decentrata, la Commissione
Europea ha voluto promuovere i programmi provenienti da una vasta gamma di
organismi locali e non governativi che, spesso, completano la progettualità
governativa.
Hanno diritto di domanda i seguenti organismi decentrati europei o dei paesi in
via di sviluppo:
* amministrazioni locali,
* organizzazioni non governative,
* associazioni locali, compresi sindacati e cooperative,
* associazioni femminili e di giovani,
istituti di ricerca,
* organizzazioni religiose e altre organizzazioni di carattere culturale.
Il cofinanziamento della Commissione Europea ha
lo scopo di sostenere e promuovere le seguenti tipologie d’azione:
valorizzazione delle risorse umane e tecniche, sviluppo locale, rurale o urbano
nei settori sociale ed economico dei paesi in via di sviluppo;
informazione e mobilitazione degli operatori della cooperazione decentrata;
sostegno e follow up metodologico delle azioni.
I progetti eleggibili devono prevedere un partenariato Nord-Sud. Dal 1993, inoltre, gli Organismi Internazionali di Sviluppo delle Nazioni Unite si sono dimostrati molto interessati a sperimentare programmi di cooperazione decentrata e la stessa Banca Mondiale si è dichiarata favorevole a promuovere politiche d’intervento decentrate.
Anticipando il dibattito internazionale fin dal 1987, l’Italia ha riconosciuto, con la Legge n° 49 del 26 febbraio e con il relativo Regolamento di esecuzione (DPR n.177 del 12 aprile 1988, art.7), alle Autonomie locali italiane (Regioni, Province Autonome ed Enti locali) un ruolo propositivo ed attuativo nell’azione di cooperazione allo sviluppo disciplinandone, altresì, la facoltà di iniziativa e le modalità di collaborazione con la DGCS (Direzione Generale Cooperazione Sviluppo) del Ministero degli Affari Esteri.
La Legge n. 49 del 1987 prevede che:
* Comuni e Provincie possono stanziare fondi per attività di solidarietà
internazionale o di cooperazione internazionale;
* Il Governo italiano può utilizzare, nell’ambito dei propri progetti, le
strutture pubbliche di Regioni ed Enti Locali.
Ogni Comune ha, così, dato inizio ad una serie di iniziative diverse: in alcuni casi si è trattato di veri e propri interventi di sviluppo, in altri si è trattato di donazioni di tutti i tipi (cibo, vestiti, materiale edile..). Il limite di questi interventi è rappresentato proprio dal loro carattere sporadico, dal fatto di non essere inseriti in un contesto specifico: in questo modo, un singolo comune o villaggio di un paese in via di sviluppo potrà ricevere benefici da un progetto di cooperazione decentrata, ma il progetto avrà tutti i limiti di un intervento occasionale. A questa situazione ha tentato di rispondere il testo della riforma della Legge 49/87 recentemente approvato da uno solo dei due rami del Parlamento (Senato, settembre 1999), che assegna un ruolo primario alla cooperazione decentrata. La legge di Riforma afferma che:
la cooperazione decentrata è la capacità dell’amministrazione sub-statale di definire e concordare con un partner di un altro paese (un comune, una città..) un accordo quadro di reciproco interesse coordinato e governato dall’amministrazione pubblica ed eseguito dalle forze presenti sul territorio (ONG, imprese sociali, ASL, piccole e medie imprese, associazioni di immigrati) le quali agiscono in base alle loro competenze.
Per il finanziamento delle iniziative di cooperazione decentrata le amministrazioni decentrate possono ricorrere a fondi propri, possono accedere a contributi e a finanziamenti di organismi internazionali di sviluppo, a fondi dell’Unione Europea, possono ricevere contributi e donazioni a carattere privato, nonché finanziamenti governativi qualora il loro intervento si inserisca nel contesto della programmazione della cooperazione governativa.
E’ significativo sottolineare come nel testo di
riforma risultino esplicitamente affermati:
“il partenariato tra soggetti pubblici e privati ed organizzazioni della società
civile del territorio italiano e dei Paesi cooperanti” quale principio base
della cooperazione italiana;
la soggettività nell’iniziativa di cooperazione di Regioni, Province autonome,
Province e Comuni nonché dei loro consorzi ed associazioni, definiti “soggetti
italiani della cooperazione” al pari del Governo e delle Organizzazioni non
governative;
la loro autonoma funzione di promotori di interventi di cooperazione allo
sviluppo, di solidarietà internazionale e di interscambio a livello decentrato
che favoriscano la partecipazione organizzata dei soggetti attivi sul territorio
di relativa competenza, ferma restando l’eventuale funzione di enti esecutori di
iniziative, anche di emergenza, interamente finanziate dalla Cooperazione
Governativa.
Inoltre, sono significative le indicazioni
contenute nel testo per quanto riguarda:
l’istituzione di fori di consultazione organica fra i soggetti della
cooperazione governativa, non governativa e decentrata, sia in fase di
predisposizione del documento di programmazione triennale della cooperazione
governativa, sia per la programmazione ed il coordinamento operativo dell’azione
di cooperazione.
Le leggi regionali esistenti prevedono la possibilità di realizzare direttamente
progetti di cooperazione attraverso l’utilizzo di strutture proprie e l’impiego
di personale amministrativo regionale.
La funzione più interessante e peculiare, però, che le Regioni possono svolgere è sicuramente quella di favorire la partecipazione alle attività di cooperazione allo sviluppo di tutte le realtà istituzionali e della società civile presenti sul proprio territorio, creando sinergie fondamentali per il trasferimento ed il pieno sfruttamento delle capacità e delle professionalità esistenti in materia. Un’altra disposizione comune alle leggi regionali è il coordinamento locale, l’assistenza e l’incentivo delle Regioni alle proposte di intervento nella cooperazione con i Pvs di associazioni, enti pubblici e privati, Ong, istituti e Università regionali. In proposito le Regioni intervengono solitamente con prestazioni di servizi, più raramente con finanziamenti. A volte è prevista la stipulazione di vere e proprie convenzioni tra l’Ente regionale e gli enti minori per la realizzazione da parte di questi ultimi di progetti di cooperazione. Il finanziamento di questi piani avviene, nella maggior parte dei casi, con l’istituzione di appositi capitoli nei bilanci regionali. Alcune Regioni prevedono espressamente l’accettazione di finanziamenti comunitari o internazionali per realizzare le proprie iniziative di cooperazione allo sviluppo.
L’art. 19 della Legge dà la possibilità a Comuni e Province di destinare un importo non superiore allo 0,80% della somma dei primi tre titoli delle entrate correnti dei propri bilanci di previsione per sostenere programmi di cooperazione allo sviluppo ed interventi di solidarietà internazionale. Tale articolo consente pertanto ai Comuni e alle Province di disporre di una base di risorse finanziarie autonome per la realizzazione di interventi di cooperazione che, se sommate ai finanziamenti della Unione Europea e delle Regioni, consente di avviare iniziative di grande rilievo.
L’obiettivo finale della cooperazione decentrata è quello di rendere autonomi gli attori locali. E’ necessario che essi prendano parte in modo attivo ai progetti, che imparino ad essere flessibili, a negoziare, a risolvere i conflitti, a riflettere e a ottenere una migliore efficacia delle azioni di sviluppo. Occorre partire da ciò che gia esiste: ogni popolazione possiede delle capacità. Su queste le azioni si devono basare per strutturare o acquisire nuove competenze. Lo sviluppo delle capacità è un processo evolutivo che non può essere separato dalla cultura e dai valori della società in questione.
Lo sviluppo delle capacità presuppone però:
informazione completa delle persone;
* strutture di appoggio ai gruppi di base o ai poteri pubblici locali;
* creazione di reti e scambio di esperienze;
* cambiamento di atteggiamenti.
Lo sviluppo delle capacità è una strategia globale e complessa, lunga e costosa. Ma è anche un mezzo che contribuisce al rafforzamento della società civile.
E’ necessario creare delle reti di cooperazione
decentrata per:
rimuovere le barriere e favorire lo scambio Nord-Sud e Sud-Sud di esperienze, la
formazione e il rafforzamento duraturo degli attori decentralizzati al Sud;
condurre le Ong e le collettività locali europee e del Sud ad associare risorse
ed iniziative intorno a delle priorità e per azioni comuni.
Solo la partecipazione degli attori decentralizzati garantisce uno sviluppo reale e duraturo. Rafforzando le capacità delle popolazioni si può influire sulla politica e produrre dei cambiamenti nella società.