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Diritti Umani

Dal punto di vista giuridico, i diritti umani sono un insieme di diritti che consuetudini e trattati internazionali attribuiscono in linea di principio ad ogni persona, indipendentemente dalla cittadinanza, dal sesso, dalla religione, dalla condizione sociale e da altri fattori discriminanti. Essi vanno al di là dei diritti del cittadino, in quanto sono universali; e nemmeno coincidono con quelli dei popoli, poiché appartengono tutti all'individuo, anche quando, per loro natura, debbano essere esercitati in forma collettiva (si pensi, ad esempio, al diritto di sciopero). Altre espressioni sostanzialmente equivalenti, a parte piccole sfumature ideologiche, sono "diritti dell'uomo", "diritti della persona", "diritti fondamentali". Il riconoscimento internazionale di tali diritti si basa in primo luogo su un complesso di documenti promossi dall'ONU e denominati impropriamente "Carta dei diritti umani" (Human Rights Bill): la dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, il patto sui diritti civili e politici col suo Protocollo facoltativo, e il patto sui diritti economici, sociali e culturali. Entrambi i patti, aperti alla firma nel 1966, sono entrati in vigore nel 1976. I principi fondamentali del cosiddetto "diritto internazionale dei diritti umani" sono generalmente considerati inderogabili (ius cogens), con la conseguenza che un trattato che ne prevedesse la violazione sarebbe di per sé nullo. Di solito, per motivi di comodità espositiva, più che per ragioni storicamente consistenti, i diritti umani vengono distinti in tre generazioni.

Diritti civili e politici

o "diritti di prima generazione", sono contenuti negli articoli 1-21 della Dichiarazione universale dei diritti umani (DUDU), ed altresì previsti dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (PDCP). Realizzano l'autonomia dell'individuo nella società e la partecipazione alla vita politica. Alcuni di questi diritti sono anche definiti tradizionalmente "libertà". In particolare, si distinguono libertà positive (di fare qualcosa), e libertà negative (di essere esenti da qualcosa). Sono "positive", ad esempio, le libertà di: pensiero, coscienza, religione, associazione, riunione, movimento, stampa. Sono libertà cosiddette "negative" quelle che consistono nel non dover subire tortura, schiavitù, arresto arbitrario, discriminazione. I diritti di prima generazione sono quelli che più facilmente possono tradursi in forme di tutela giudiziaria.

Diritti economici, sociali e culturali

o "diritti di seconda generazione", sono contenuti negli articoli 22-27 della DUDU. Sono altresì previsti nel Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali (PDESC). A questo gruppo appartengono diritti che richiedono un intervento attivo dello stato a sostegno di forme di eguaglianza sostanziale: ad esempio il diritto al lavoro, alla sicurezza sociale, alla tutela sindacale, alle cure mediche, all'educazione (o più in generale alla formazione), a un livello di vita decente, alla partecipazione alla vita culturale. A differenza di quelli di prima generazione sono rimasti per lo più allo stato di principi politici.

Diritti di solidarietà

ovvero "emergenti", o semplicemente "diritti della terza generazione" (della quarta, se i diritti civili e quelli politici vengono contati come due distinte generazioni), sono contenuti negli articoli 28-30 della DUDU, e in parte previsti anche dal PDESC. Sono, ad esempio, il diritto alla pace, all'autodeterminazione, al godimento delle risorse della terra e dello spazio, ad un ambiente sano ed equilibrato, allo sviluppo economico e sociale, all'aiuto umanitario in caso di catastrofi. Si tratta di diritti difficilmente "azionabili" sul piano giuridico. In qualche caso sono "diritti" in un senso palesemente diverso da quelli delle prime due generazioni, perché hanno come soggetto attivo non individui, ma comunità, popoli, o addirittura l'intera umanità.

 

È possibile individuare nel 1215, anno della pubblicazione della Magna Charta, e nel 1689, anno della pubblicazione del Bill of Rights, le prime due tappe embrionali della riflessione intorno ai diritti dei sudditi. È soltanto nel 1776, tuttavia, con la Dichiarazione dei diritti della Virginia, che diritti definiti come fondamentali, naturali, inalienabili ed imprescrittibili per l’uomo, si svincolano dall’appartenenza a una qualsivoglia realtà politica e si approssimano a prefigurarsi come universali. A partire da quell’esempio, è invalso l’uso di inserire la lista di quei diritti quale premessa alle dichiarazioni d’indipendenza dei singoli Stati americani dalla Gran Bretagna. Del 1789 è la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Con essa, la Francia rivoluzionaria si sforzava non solo di garantire in sede di giudizio una forma di tutela del cittadino contro la forza schiacciante dello Stato, ma anche soprattutto in sede legislativa, ovvero sin dal momento in cui le leggi di uno Stato prendono forma ad opera del potere costituito. Tali passaggi epocali non avvengono certo in assenza di critiche: si registra anzi la contemporaneità di posizioni assai rigide e conservatrici come quelle di Burke e di Bentham, con quelle espresse, ad esempio, negli scritti di Paine sulla naturale pertinenza dei diritti dell’uomo, di Mary Wollstonecraft sull’uguaglianza dei diritti fra uomini e donne (1792) e ancora di Kant. Quest’ultimo, in uno scritto del 1795, al diritto interno ed interstatale non esita ad affiancare uno ius cosmopoliticum, che tuteli i rapporti fra uno Stato ed i “cittadini di uno stato umano universale”. Non mancheranno critiche dalla Chiesa (Gregorio XVI, enc. Mirari vos, 1832) che soltanto con l’enciclica Mit brennender Sorge (lett. Con più appassionata preoccupazione) di Pio XII (1937) aprirà uno spiraglio alla tematica dei diritti umani. Marx stesso non si esprimerà in favore della Dichiarazione francese, nella quale egli vedeva una mera tutela delle attitudini più egoistiche dell’uomo (Marx K., Sulla questione ebraica, 1844).

Nel 1864, un anno dopo la creazione della Croce Rossa - col nome di Comitato internazionale e permanente di soccorso ai feriti militari -, veniva siglata a Ginevra la prima di una serie di Convenzioni sul diritto umanitario a protezione di tutti i soldati feriti e prigionieri di guerra, a prescindere dalla loro nazionalità. A questa si affiancheranno successivamente una serie di Convenzioni per il disarmo e per il bando di determinate armi ed esplosivi. Non le citeremo qui, sebbene siano da considerarsi comunque convenzioni a tutela dei diritti universali dell’uomo (vedi Armamenti). Nel 1890 e nel 1926 sono siglate, rispettivamente, l’Atto contro la schiavitù (Conferenza di Bruxelles) e la Convenzione sull’abolizione della schiavitù e del traffico degli schiavi. Tra il 1942 ed il 1948 viene strutturato quell’ordinamento che getterà le basi di tutte le disposizioni future in materia di Diritti universali. Si tratta di un serrato processo che passa dalla pubblicazione della cosiddetta Carta Atlantica agli incontri degli Alleati a Dumbarton Oaks (1944), alla Carta di San Francisco – istitutiva dell’ONU –, attraversa il Processo di Norimberga (1946), e si conclude con la Dichiarazione Interamericana dei diritti e dei doveri dell’uomo e la Dichiarazione Universale dei diritti umani dell’ONU (1948). Nel 1950, il Consiglio d’Europa sigla la Convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà. Essa si impone come vincolante – a tutti gli effetti – per gli Stati membri e implica l’attivazione di una Corte Europea di Giustizia e l’incorporamento della suddetta Convenzione europea nel corpus delle leggi comunitarie. La Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (1967)- ora, Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa (OSCE, 1994) - e l’Atto finale della Conferenza di Helsinki (1975) hanno giocato un ruolo fondamentale nella transizione democratica del blocco sovietico. Ciò ha prodotto l’inclusione nella ratifica del Documento di Mosca (1991) dell’impegno assunto nei confronti della cosiddetta “dimensione umana”. Per nulla vincolante per gli Stati, al contrario, si è rivelata la serie di convenzioni siglate in ambito ONU: la Convenzione per l’eliminazione della discriminazione razziale (1965); la Convenzione contro l’apartheid (1975); la Convenzione sull’eliminazione per ogni forma di discriminazione contro le donne (1979); la Convenzione contro la tortura e altri trattamenti e punizioni crudeli, inumane o degradanti (1984) e la Convenzione sui diritti del fanciullo (1989). Frattanto, nel 1961, Peter Benenson creava Amnesty International, che, a tutt’oggi, è la ONG più attiva nel campo dei diritti umani accanto ad Human Rights Watch. Il Patto sui diritti civili e politici ed il Patto sui diritti economici (1966), approvati dalla AG dell’ONU, sono stati ratificati soltanto negli anni ’90 dalla maggior parte degli Stati. In ogni caso, almeno per quel che riguarda i Protocolli opzionali relativi alla pena di morte ed ai ricorsi individuali, che pur hanno una forza maggiore rispetto alle altre convenzioni citate, questi patti non sono stati sottoscritti proprio da quegli Stati in cui la situazione della tutela dei diritti umani è più compromessa. L’intervenuta istituzione nel 1967 della Commissione per i diritti dell’uomo da parte dell’ONU, non è mai stata incisiva, specie in questi casi. L’Alto Commissariato per i Diritti Umani, istituito nel ’93, sembra invece avere maggiore margine d’intervento nel supportare il radicamento di un sistema di tutela dei diritti umani in Stati in fase di transizione democratica. Nel 1981, è stata siglata la Carta Africana dei Diritti Umani e dei Popoli. Nel 1992, rivendicando il diritto di intervento nei confronti delle “minacce alla pace”, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha autorizzato una missione militare in Somalia, dando di fatto, l’avvio alla serie dei cosiddetti “interventi autoritativi di pace”. Un duro colpo alla vocazione universale dei diritti umani, è giunta nel 1993, alla Conferenza di Vienna sui diritti umani. In questa sede, gli stati non-Occidentali hanno fortemente denunciato la mancanza di rispetto da parte di tutta la tradizione occidentale, storica portatrice della riflessione sui diritti umani, verso le specificità culturali delle altre realtà.

In che senso i diritti umani sono effettivamente attributi giuridici della persona, e non semplici esigenze politiche e morali? Occorre notare che, per antica benché scomoda tradizione, il termine "diritto" viene usato con due diversi significati. In una prima accezione, quella "oggettiva", il diritto (in inglese law) è inteso come l'ordinamento giuridico, cioè il sistema delle norme di condotta e di organizzazione che regolano la vita di una comunità politica. Si tratta di un complesso di comandi, autorizzazioni e minacce di sanzioni che per lo più derivano dallo stato, e sono differenti dai precetti della morale, della religione, o del generico costume. Il diritto consiste, dunque, di norme coercitive e positive (nel senso che sono "poste" dalla volontà umana, e non "date" in natura, o "rivelate" da Dio). La distinzione tra diritto e religione (o morale) è appunto una delle caratteristiche costitutive della cultura occidentale moderna. Le altre tradizioni - ad esempio la cinese, o l'islamica - sono in genere molto meno disposte a riconoscere la tecnicità e la laicità del diritto.

Per "diritto soggettivo" (in inglese right) s'intende invece una forma particolarmente intensa di protezione che l'ordinamento accorda all'interesse materiale o morale di un soggetto. Si tratta dunque del potere di realizzare una propria utilità, pretendendo da altri - da qualcuno in particolare, o da chiunque - un certo comportamento. L'inadempienza altrui autorizza il ricorso all'autorità giudiziaria, per ottenerne tutela civile e, se necessario, penale. Il momento "pacifico" della pretesa, è dunque garantito da quello "aggressivo" dell'azione giudiziaria. Negli ordinamenti moderni sono generalmente attribuiti al cittadino alcuni diritti fondamentali, riconosciuti come essenziali allo sviluppo delle potenzialità materiali e morali della persona. Essi realizzano i tre principi essenziali del moderno concetto di cittadinanza: libertà, eguaglianza e solidarietà. I diritti fondamentali del cittadino ovviamente non sono di per sé estensibili allo straniero, che verrà piuttosto tutelato da altre norme, di origine internazionale. Alla loro formazione si è pervenuti attraverso un lungo processo storico, che parte dalla creazione dello stato costituzionale liberale, per arrivare al modello democratico-sociale più recente. I diritti fondamentali debbono essere tra loro coordinati per evitare l'effetto perverso di approfondire le disuguaglianze di fatto e i rapporti di dominio. Perciò l'art. 3 della Costituzione italiana, dopo avere riconosciuto pari dignità sociale ed eguaglianza giuridica a tutti i cittadini, afferma che "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana...". I diritti del cittadino, ma anche quelli umani, possono essere pienamente assicurati solo da uno stato che riconosca la supremazia della legge: uno "stato di diritto", cioè nel quale gli organi politici, amministrativi e giudiziari funzionino non in modo arbitrario, ma sulla base di regole certe, razionali e predeterminate.

La dialettica tra valori e norme alimenta un dibattito millenario sul fondamento del diritto. Come si formano le norme giuridiche, e perché vengono rispettate? Al riguardo si contrappongono due posizioni: il "positivismo giuridico", e il "giusnaturalismo". Per il primo orientamento, prevalente in questo secolo, tutto il diritto è di origine statale o comunque positiva. La comunità politica ha una potestà normativa svincolata da ogni ordinamento superiore, sia naturale che religioso. Essa coincide normalmente con la volontà del legislatore, senza bisogno di ulteriori fondamenti: è giusto ciò che viene ordinato. Certo la giustizia, nel sentire comune, non viene intesa solo come la formale legittimità delle regole o la loro corretta applicazione, ma soprattutto come la loro conformità sostanziale a dei valori condivisi. Ma essi non sono di per sé diritto: lo diventano quando lo stato li accetta come norme.

La seconda teoria tende invece a sostenere la derivazione naturale almeno dei principi fondamentali dell'ordinamento, qualunque cosa si intenda poi per "natura". Esisterebbero dunque delle norme universali, "di per sé chiare e evidenti", che tendenzialmente prevalgono su quelle positive. Un tale genere di norme non sarebbe una creazione contingente e soggettiva: nella sua impostazione estrema - spesso di matrice religiosa - il "diritto" in senso stretto verrebbe a coincidere con le sole norme "oggettivamente" giuste. L'idea di un diritto naturale può essere utilizzata sul piano politico tanto in senso conservatore, quanto in senso contestativo: si può infatti pensare che il legislatore operi in maniera conforme alla natura (cioè alla giustizia assoluta), oppure che l'ordinamento positivo sia difforme dalla legge naturale, e addirittura complessivamente illegittimo. In questo modo vengono posti dei limiti oggettivi alla pretesa dei governanti di essere obbediti. Non a caso è dall'ambito della teoria giusnaturalistica che parte l'idea di diritti umani, intesi (in questa particolare prospettiva) come diritti fondamentali innati, inerenti all'essere umano in quanto tale, che l'autorità politica non può né violare né creare, ma soltanto riconoscere. Questo legame storico tra l'affermazione dei diritti umani e la teoria giusnaturalista si manifesta con maggior evidenza in due momenti di svolta nella civiltà dell'Occidente: all'epoca delle rivoluzioni del XVII e XVIII secolo, e alla fine della seconda guerra mondiale. In Inghilterra, in America e successivamente in Francia, le monarchie assolute e i privilegi aristocratici vengono contestati in nome dei diritti umani. I documenti più importanti di questo periodo sono il Bill of Rights inglese, le dichiarazioni dei diritti delle colonie americane ribellatesi al dominio inglese (soprattutto quella della Virginia), la Costituzione degli Stati Uniti, e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, in Francia. Il loro impianto ideologico, legato all'affermazione di una nuova etica individualistica e illuministica, si ispira inizialmente alle posizioni sostenute da John Locke, il fondatore del pensiero liberale anglosassone, nei Due trattati sul governo (1690).

 

La società nasce, a partire da un originario stato di natura, mediante un contratto, nel quale ciascuno accetta dei limiti ai propri diritti, al solo scopo di goderne poi in piena sicurezza. Nessuno quindi rinuncia ai propri diritti (libertà personale, proprietà, libertà di opinione) a vantaggio dei governanti. Eguale dignità, e autonomia morale dell'individuo sono, per i rivoluzionari inglesi, americani e francesi, le due premesse filosofiche dei diritti umani. Ma perché l'"uomo" possa esercitarli in pratica, occorre che diventi soggetto di un ordinamento fondato sulla supremazia della legge, sulla libertà civile e politica, e soprattutto sull'eguaglianza di diritti e doveri. L'art. 1 della Dichiarazione francese recita: "Gli uomini nascono liberi e rimangono liberi ed eguali nei diritti", e l'art. 6: "La legge è espressione della volontà generale…Essa deve essere eguale per tutti, sia quando tutela che quando punisce". Di fatto la caduta dell'ancien régime non realizzò le potenzialità emancipatrici di questo schema teorico, né riguardo ai ceti subalterni, né alle donne, né agli schiavi e ai sudditi delle colonie: l'"uomo" delle dichiarazioni fu in realtà maschio-bianco-proprietario. I diritti fondamentali furono inoltre scissi dalle loro radici naturalistiche e cosmopolitiche, e ricondotti alla sola dimensione di diritti "del cittadino", inteso come partecipe dell'onnipotente stato-nazione. Tutt'al più regole consuetudinarie di diritto "umanitario", volte sostanzialmente a favorire i commerci ed a contenere gli orrori della guerra, impegnavano gli stati a tutelare, in certe circostanze, determinate categorie di stranieri.

La creazione dello stato democratico, con l'allargamento del suffragio, si rivelò uno sviluppo decisivo per la concreta attuazione dei diritti fondamentali, rispetto al modello liberale, elitario e classista. Esso infatti superò la distinzione tra cittadini attivi (dotati del censo minimo necessario a partecipare dei diritti politici), e passivi (titolari dei soli diritti civili), tipica dello stato liberale, arrivando infine a estendere il suffragio alle donne. Un passo avanti ulteriore, sotto la spinta del movimento dei lavoratori, è rappresentato dallo stato assistenziale, che intraprende forme di previdenza sociale, assistenza sanitaria, istruzione superiore di massa. Esso ha fornito gli strumenti per realizzare, in parte addirittura per poter concepire, i diritti economici, sociali e culturali. Ma è solo alla fine della seconda guerra mondiale che l'idea dei diritti della persona, che consolidano e superano quelli del cittadino, ha ripreso vigore, con la creazione di importanti strumenti giuridici di tutela, che cominciano a renderli effettivi sul piano internazionale. Fino ad allora solo lo stato era considerato come soggetto di diritto internazionale. Ed era solo lo stato a garantire, se e come volesse, diritti civili, politici e sociali ai cittadini. Nel 1945, la Carta delle Nazioni Unite comincia con l'assegnare invece all'ONU il compito di "incoraggiare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali" (art. 1), come mezzo per realizzare un ordine di pace. Si forma quindi, embrionalmente, l'idea di una sorta di cittadinanza universale, che attribuisce all'individuo una serie di diritti, che vanno rivendicati innanzitutto nei confronti degli stati. Il 10 dicembre 1948 l'Assemblea Generale approva una Dichiarazione universale dei diritti umani: per la prima volta nella storia gli stati si impegnano alla tutela di diritti umani, sulla base di una comune "tavola" di definizioni. Fra i 30 articoli di questo documento, ricordiamo quelli che riconoscono pari libertà, dignità e diritti a tutti gli esseri umani (artt. 1 e 2). In particolare, ognuno ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza (art. 3). E' vietata la tortura (art. 5). Ognuno ha diritto a un processo equo (art. 10), nel quale siano garantiti il diritto alla difesa e la presunzione di innocenza (art. 11). L'art. 13 garantisce la libertà di movimento e di residenza, e il 14 il diritto d'asilo; il 18 e il 19 la libertà di opinione e di religione; il 20 quella di associazione; il 21 riguarda l'elettorato attivo e passivo e l'accesso ai pubblici uffici; gli articoli dal 22 al 26 i diritti economici, sociali e culturali. Si tratta di un'impostazione sotto diversi aspetti "occidentale", perché ad esempio dà più spazio ai diritti civili e politici rispetto a quelli economici. Ma lo è soprattutto in senso progressivo e moderno, perché fonda sulla tolleranza, la laicità dello stato, la democrazia, l'uguaglianza di sessi, razze, religioni, il modello politico proposto alla comunità internazionale. Al momento della votazione, che pure non registrerà alcun voto contrario, si avranno perciò diverse astensioni: il blocco comunista, i paesi islamici, il Sudafrica.

Un anno prima della Dichiarazione universale fu promulgata la Costituzione italiana che pone a fondamento del patto sociale l'impegno alla tutela dei diritti umani. Infatti all'art. 2 recita: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". L'esigenza del rispetto dei diritti umani viene di fatto rafforzata dall'art.10 della Costituzione, che prevede l'adeguamento automatico del nostro ordinamento ai principi fondamentali del diritto internazionale. A causa dei contrasti tra le maggiori potenze, e della diffusa resistenza ad accettare limiti concreti alla propria sovranità a vantaggio di istituzioni sovranazionali, si deve attendere il 16 dicembre 1966 perché i principi etico-politici della Dichiarazione si possano tradurre in due accordi giuridicamente vincolanti. Il primo è il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali; il secondo è il Patto internazionale sui diritti civili e politici. Quest'ultimo prevede come ulteriore opzione un Protocollo facoltativo, che rende possibile anche a una singola persona la denuncia di violazioni dei diritti previsti da tale Patto. Su scala "regionale", il Consiglio d'Europa aveva già adottato nel 1950 una Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani (entrata in vigore nel '53), che impegnava tra l'altro gli stati aderenti a riconoscere la giurisdizione della Corte europea dei diritti umani, cui possono rivolgersi anche cittadini privati e organizzazioni non governative. Ancora per iniziativa del Consiglio d'Europa, era entrata in vigore nel 1965 la Carta sociale europea. Sul modello europeo, l'Organizzazione degli stati americani (OSA) dava vita alle Convenzioni interamericane sui diritti umani (1969-78). Nel 1981, sulla base di principi parzialmente divergenti dalla Dichiarazione universale del '48, l'OUA (Organizzazione per l'Unità Africana) emanava una Carta africana dei diritti umani e dei popoli. Nel 1975 i paesi dell'OSCE partecipanti alla Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa hanno riconosciuto la necessità di tutelare i diritti umani per sviluppare rapporti internazionali pacifici, giusti ed economicamente produttivi (principio VII). Accanto alle dichiarazioni di principi e agli strumenti normativi a carattere generale, una serie di trattati e convenzioni ha regolato singoli aspetti della materia, in molti casi prendendo in considerazione non solo l'individuo astratto della tradizione liberale, ma anche le specifiche necessità di gruppi maggiormente bisognosi di tutela. Segnaliamo in particolare la Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1950, la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, del 1979, la Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia del 1989.

Un importante contributo alla tutela dei diritti umani potrà in futuro venire dalla giurisdizione universale in materia di crimini contro l'umanità attribuita al Tribunale penale permanente.. A fianco della Corte Internazionale di giustizia dell’ONU all’Aja (subentrata alla Corte permanente di giustizia internazionale della Società delle Nazioni attiva dal 1921 al 1945), destinata a dirimere le controversie fra gli Stati, tra il 1994 ed il 1998 sono stati istituiti tribunali internazionali ad hoc per i crimini commessi nell’ex-Yugoslavia ed in Ruanda. Col Trattato di Roma (1998), inoltre, è stata istituita una Corte internazionale penale che ambisce superare l’impasse della fase ideologica del “globalismo giuridico”, nonché la sua natura «ibrida» (secondo la definizione di Virgilio), sospesa tra normativa, giurisprudenza e dottrina del diritto internazionale. La Corte mira a intervenire sull’adeguamento degli ordinamenti interni dei singoli Stati, per consentire la cooperazione con i tribunali ad hoc e con la Corte internazionale penale stessa. Essa è dotata addirittura della possibilità di far propri principi di diritto interno al paese dell’imputato, purché non siano in contrasto con le sue norme statutarie.